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Dalle Raccomandazioni per la comprensione e l'attuazione dei Documenti nazionali della riforma (Profilo educativo, culturale e professionale e Indicazioni Nazionali per i Piani di studio personalizzati)
Materiale interno di lavoro distribuito in esclusiva dalla Direzione Generale degli Ordinamenti all'incontro conoscitivo sulla riforma con i Comitati orizzontali Scuola dell'infanzia, Scuola primaria e Scuola secondaria di primo grado del CNPI alla fine del 2003

1. Il contesto normativo

Negli ultimi 15 anni, e con un punto di non ritorno sanzionato dalla legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3, il nostro Paese ha scelto di trasformare la natura e la struttura del sistema educativo nazionale di istruzione e di formazione. Da un modello piramidale fondato sulle esclusive prerogative dello Stato e della sua amministrazione si è passati ad un modello che fa interagire in maniera integrata e cooperativa quattro diverse competenze: a) dello Stato; b) delle Regioni e degli enti territoriali; c) delle istituzioni scolastiche autonome; c) della famiglia.
Le tappe di questa trasformazione, del resto ancora in via di svolgimento e di perfezionamento, si possono identificare nelle seguenti:
- 1988, presentazione del primo progetto di legge sull'autonomia delle istituzioni scolastiche;
- 1991, Conferenza nazionale della scuola;
- 1993, approvazione dell'art. 4 della legge 24 dicembre, n. 537 che introdusse le prime norme sull'autonomia delle istituzioni scolastiche, tuttavia caducate per mancato esercizio di delega l'anno successivo;
- 1997, approvazione della legge n. 59 sul decentramento amministrativo, a sua volta contenente (art. 21) il riconoscimento dell'autonomia delle istituzioni scolastiche che risulterà poi normata dai successivi decreti attuativi, tra cui il fondamentale Dpr n. 275/99;
- 2000, emanazione della legge sulla istituzione del servizio pubblico integrato di scuole statali e non statali (legge n. 62 sulla parità);
- 2001, approvazione della legge costituzionale 18 dicembre 2001, n. 3 che introduce il principio di sussidiarietà, costituzionalizza l'autonomia delle istituzioni scolastiche e ridisegna ruoli e funzioni dello Stato, delle Regioni e degli altri enti territoriali nel governo, nella gestione e nell'organizzazione del sistema educativo nazionale di istruzione e di formazione;
- 2003, approvazione della legge delega 28 marzo, n. 53, che dettando le norme generali e i livelli essenziali di prestazione relativi all'intero sistema educativo nazionale di istruzione e di formazione, ordina il percorso compiuto e, allo stesso tempo, apre quello ancora da compiere.

Il principio di sussidiarietà
La prima caratteristica del nuovo modello di sistema educativo nazionale di istruzione e di formazione definitosi nel nostro Paese è il suo generale improntarsi al principio costituzionale di sussidiarietà. Sussidiarietà verticale: "La Repubblica è costituita dai Comuni, dalle Province, dalle Città metropolitane, dalle Regioni e dallo Stato" (art. 114, co. 1 della Costituzione); "Le funzioni amministrative sono attribuite ai Comuni salvo che, per assicurarne l'esercizio unitario, siano conferite a Province, Città metropolitane, Regioni e Stato, sulla base dei principi di sussidiarietà, differenziazione ed adeguatezza" (art. 118, co. 1 della Costituzione). Ma anche sussidiarietà orizzontale: infatti, "Stato, Regioni, Città metropolitane, Province e Comuni favoriscono l'autonoma iniziativa dei cittadini, singoli e associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale" (art. 118, co. 4 della Costituzione). Rientra nel rispetto del principio di sussidiarietà orizzontale anche la valorizzazione del ruolo e della funzione della singola persona e della famiglia, la prima e fondamentale "formazione sociale" entro cui "si svolge la personalità" di ciascuno (art. 2 della Costituzione). L'adozione di questo principio a livello di sistema educativo nazionale di istruzione e di formazione ha portato a conseguenze che vanno evidenziate.
1. In primo luogo, si è ribadita in maniera vigorosa la centralità della persona dello studente nel sistema educativo nazionale di istruzione e di formazione e nell'azione di tutti i soggetti personali e istituzionali che sono chiamati a promuoverlo. A conferma di questa riconosciuta centralità, la legge delega n. 53/03 ricorda che, obbligatoriamente per 12 anni o almeno fino all'ottenimento di una qualifica professionale, è necessario adoperare sia la cultura, sia il lavoro come mezzi per elevare tutte le dimensioni della persona umana (fine), e non come fini a cui piegare e indirizzare la persona umana. Per questo, inoltre, si parla di piani di studio degli studenti "personalizzati". E si sottolinea quanto il "diritto ad apprendere" di ogni studente (art. 21, co. 9 della legge n. 59/97) pretenda sempre la "personalizzazione" di qualsiasi sapere e saper fare che egli possa incontrare.
2. In secondo luogo, proprio per esaltare la centralità della persona umana che vive e matura in una famiglia concreta, tra altre "formazioni sociali" altrettanto concrete, in un territorio non meno unico e determinato il quadro normativo ha avvalorato, nel sistema educativo nazionale di istruzione e di formazione, molto più di quanto sia accaduto finora, il ruolo, il contributo e la responsabilità educativa: a) delle famiglie; b) delle istituzioni scolastiche e dei docenti; c) delle Regioni e degli enti territoriali; d) delle altre "formazioni sociali" attive in un territorio. Infatti, la normativa:
a) ha riconosciuto alle famiglie "la libertà di scelta educativa" (art. 21, co. 9 della legge n. 59/97) o all'interno del Pof delle scuole statali (art. 3, co. 2 del Dpr 275/99) o tra i Pof delle scuole pubbliche statali e non statali (legge 62/2000); nella stessa linea, ha responsabilizzato le famiglie per la possibile, anticipata iscrizione dei figli alla scuola dell'infanzia e primaria, per la scelta delle attività facoltative opzionali dei figli durante il primo e secondo ciclo degli studi, per il contributo che esse possono e devono offrire ai Piani di Studio Personalizzati e al Portfolio delle competenze;
b) ha sanzionato l'autonomia delle istituzioni scolastiche (art. 21 della legge n. 59/97 e relativi decreti delegati; legge 62/2000); a segno della fondatività di questa impostazione l'ha addirittura costituzionalizzata (art. 117, co. 3 del testo costituzionale): non più, in altri termini, le istituzioni scolastiche uffici terminali e periferici dell'amministrazione statale e centrale del Miur, ma costituzionalmente autonomie funzionali che interloquiscono a rete fra di loro e con tutti gli altri enti e con tutte le "formazioni sociali" coinvolti nel sistema educativo nazionale di istruzione e di formazione (Dpr 275/99); in questo contesto, ha potenziata la libertà di insegnamento e la professionalità dei docenti;
c) ha riservato alle Regioni italiane la legislazione concorrente con lo Stato per la gestione e l'organizzazione generale del sistema educativo nazionale di istruzione (art. 117, co. 3 della Costituzione 2001); ha, inoltre, riconosciuto alle Regioni la legislazione esclusiva per il governo, la gestione e l'organizzazione sia del sistema educativo nazionale di istruzione e formazione professionale (sempre art. 117, co. 3), fatti salvi i livelli essenziali di prestazione stabiliti dallo Stato (art. 117, co. 2, punto m), sia di una quota dei Piani di Studio Personalizzati di tutte le scuole del sistema di istruzione "relativa agli aspetti di interesse specifico delle Regioni, collegata con le realtà locali" (art. 2, co. 1, punto l della legge n. 53/2003); allo stesso tempo, ha riconosciuto ai Comuni le funzioni amministrative riguardanti l'intero sistema educativo di istruzione e di formazione (art. 118, co. 1 della Costituzione 2001);
d) ha affermato come normativo e non come concessivo il contributo di enti e privati della società civile all'istituzione e al funzionamento di scuole e di centri dell'istruzione e formazione professionale che appartengono a pieno titolo al sistema educativo nazionale paritario di istruzione e di formazione (sistema pubblico integrato, legge 62/2000); inoltre, ha valorizzato, con gli stage e con l'alternanza scuola lavoro (artt. 2 e 4 della legge n. 53/2003), oltre che con l'allargamento dell'offerta formativa (art. 9 del Dpr 275/99) il contributo all'apprendimento e alla maturazione delle persone fornito dalle imprese profit e non profit e dalle parti sociali (sindacati, cooperative ecc.) che agiscono in un territorio.
3. Infine, per rispettare il principio di sussidiarietà, ha superato la tradizionale identificazione tra Stato e Repubblica ancora presente nella Costituzione formale del 1948. Con la legge costituzionale n. 3/2001, infatti, la Repubblica resta una e indivisibile (art. 5 della Costituzione), ma non è più riducibile allo Stato, né mantiene l'unità e l'indivisibilità perché tutti o la maggior parte dei servizi ai cittadini, quello di istruzione e di formazione compreso, sono monopolio dello Stato.
La Repubblica, invece, "è costituita dai Comuni, dalle Province, dalle Città metropolitane, dalle Regioni e dallo Stato" (art. 114, co. 1), nel senso che essi sono Repubblica al pari dello Stato, sebbene in modi e funzioni diverse. Inoltre, sono a pieno titolo Repubblica, e contribuiscono alla sua unità e indivisibilità, anche tutte quelle istituzioni promosse da soggetti singoli o associati che "svolgano attività di interesse generale, sulla base del principio di sussidiarieta" (art. 118, co. 4). La famiglia, una cooperativa scolastica o creditizia o sanitaria o per il tempo libero, qualsiasi sindacato, un ente morale o religioso, le imprese, le comunità espresse dalle diverse confessioni religiose ecc., proprio perché "formazioni sociali" (art. 2 della Costituzione), quando svolgono attività di interesse generale stabilite dalla legge, sono, perciò, una componente costitutiva della Repubblica, sebbene in modi, ambiti e scopi diversi, dei Comuni, delle Province, delle Città metropolitane, dalle Regioni e dello Stato. Ciò ha significato passare dal sistema educativo nazionale di istruzione e di formazione dello Stato a quello della Repubblica.

Il principio di equità
La seconda caratteristica del nuovo modello di sistema educativo nazionale di istruzione e di formazione sta nell'esigere dallo Stato il ruolo di garante metodologico e sostanziale dell'equità.
Proprio perché la Repubblica italiana fonda i propri ordinamenti e le proprie istituzioni sul principio generale della sussidiarietà verticale e orizzontale, la norma chiede che ciò non si traduca, anche in tema di istruzione e di formazione, in prestazioni di servizi ai cittadini che siano differenziate a seconda delle diverse zone del Paese e inadeguate sul piano quantitativo e qualitativo. È necessario evitare i rischi della frammentazione localistica del sistema educativo nazionale di istruzione e di formazione e della polarizzazione, ovvero della propensione a costituire all'interno di ogni frammento territoriale l'esistenza di scuole di serie A e di serie B, con rinnovate forme di esclusione e di emarginazione. Per questo il Legislatore, costituente e ordinario, ha affidato allo Stato tre compiti fondamentali.
Governo. Il primo è il governo unitario del sistema educativo nazionale di istruzione e di formazione della Repubblica. A questo scopo, lo Stato detta:
a) - "le norme generali sull'istruzione" (art. 117, co. 2, punto n della Costituzione 2001), ovvero gli ordinamenti della scuola dell'infanzia, primaria, secondaria di I grado e per i Licei; la natura e le caratteristiche di ciascun grado di scuola; gli "obiettivi generali del processo educativo", gli "obiettivi specifici di apprendimento" disciplinari e interdisciplinari, nonché i vincoli e le risorse che ogni istituzione scolastica della Repubblica è obbligata ad impiegare, nei propri Pof, in tema di predisposizione dei piani di studio, di impiego degli organici e di definizione degli standard di prestazione del servizio (art. 8 Dpr 275/99);
b) - "i livelli essenziali delle prestazioni" che le Regioni sono tenute ad assicurare nel governo, nella gestione e nell'organizzazione del sistema dell'istruzione e della formazione professionale che la Costituzione affida loro in via esclusiva.
Nella riforma che si sta disegnando con i Regolamenti attuativi ancora in discussione, lo Stato declina questo compito, prescrivendo, per ogni grado di scuola, i seguenti Documenti nazionali:
- il Profilo educativo, culturale e professionale dello studente alla fine del Primo Ciclo di istruzione (art. 2, co. 1, punto a, d, f della legge n. 53/2003);
- il Profilo educativo, culturale e professionale dello studente alla fine del secondo ciclo di istruzione, valido anche ai fini della determinazione dei "livelli essenziali di prestazione" per il sistema dell'istruzione e formazione professionale regionale (art. 2, co. 1, punto g, h e art. 4, co. 1, punto a);
- le Indicazioni nazionali per i Piani Personalizzati delle Attività Educative nella scuola dell'infanzia (art. 8, Dpr 275/99);
- le Indicazioni nazionali per i Piani di Studio Personalizzati (PSP) nella Scuola primaria, nella Scuola Secondaria di 1° grado scuola e nei Licei (art. 8, Dpr. 275/99).
Controllo
. Il secondo compito si riferisce al controllo della complessiva funzionalità, omogeneamente distribuita sull'intero territorio nazionale, del sistema educativo di istruzione e di formazione. A questo scopo, lo Stato istituisce il Servizio Nazionale di Valutazione (art. 1, co. 3, punto b della legge n. 53/2003) che, attraverso l'Istituto Nazionale per la Valutazione del Sistema di Istruzione (Invalsi: art. 3 della legge n. 53/2003), controlla se e quanto disposto nei PECUP e nelle Indicazioni Nazionali per i PSP risulti davvero assicurato ai cittadini in tutte le Regioni e in ogni istituzione scolastica della Repubblica. In questa prospettiva, l'Invalsi, su specifiche direttive del Miur, "effettua verifiche periodiche e sistematiche sulle conoscenze e sulle abilità degli studenti e sulla qualità complessiva dell'offerta formativa delle istituzioni scolastiche e formative" (art. 3, co. 1, punto b della legge delega).
Grazie all'Invalsi, da un lato, le istituzioni scolastiche autonome e gli altri soggetti coinvolti nella gestione e nell'organizzazione del sistema educativo nazionale di istruzione e di formazione potranno dimostrare che essi innalzano per tutti, secondo le esigenze di ciascuno, il livello di educazione e di cultura della popolazione della Repubblica (concetto dell'accountability: del "render conto" delle proprie prestazioni e dei propri risultati); dall'altro, si potranno individuare i punti di maggior debolezza nella prestazione dell'offerta formativa territoriale, così da poter intervenire con appositi sostegni e provvidenze di ricostituzione del "capitale umano e sociale".
Sostegno. L'ultimo compito affidato allo Stato per garantire l'equità consiste nella predisposizione di interventi perequativi (finanziari e/o tecnici) per sanare le eventuali disomogenità riscontrate, che si configurerebbero come una ferita al diritto sociale e civile all'istruzione e alla formazione assicurato a tutti i cittadini italiani per almeno 12 anni. In questa direzione, lo Stato mantiene una rete capillare di sensori che, per un verso, servano di appoggio e di consulenza tecnica per le istituzioni scolastiche e formative che ne avessero bisogno, e, per l'altro verso, in collegamento con gli organismi di verifica e di controllo, nonché con gli enti territoriali e le scuole, monitorino lo stato del sistema stesso e il grado di soddisfazione del diritto sociale e civile all'istruzione e alla formazione di tutti i cittadini. Rientrano in questa funzione le attività ed i servizi dell'amministrazione centrale e periferica, dell'Indire, degli Irre, del corpo ispettivo, dell'Invalsi e, in prospettiva, dei centri di eccellenza per la formazione in servizio promossi dalle Strutture di Ateneo/Interateneo in base all'art. 5 della legge n. 53/03.

Il principio della solidarietà
La terza caratteristica del nuovo modello di sistema educativo nazionale di istruzione e di formazione disegnato dalle norme è il riferimento al principio della solidarietà tra i vari soggetti istituzionali che lo costituiscono.
L'art. 119 della Costituzione, nel riconoscere a Comuni, Province, Città metropolitane e Regioni l'autonomia finanziaria di entrata e di spesa, dispone che "la legge dello Stato istituisce un fondo perequativo, senza vincoli di destinazione, per i territori con minori capacità fiscale per abitante" (co. 3); inoltre, che, "per promuovere lo sviluppo economico, la coesione e la solidarietà sociale, per rimuovere gli squilibri economici e sociali, per favorire l'effettivo esercizio dei diritti della persona, o per provvedere a scopi diversi dal normale esercizio delle loro funzioni, lo Stato destina risorse aggiuntive ed effettua interventi speciali in favore di determinati Comuni, Province, Città metropolitane e Regioni" (co. 5).
Dunque, uno Stato garante dell'equità è possibile solo in un ordinamento repubblicano complessivamente solidale in cui chi ha di più dia a chi ha meno e in cui tutti i soggetti cooperino per il bene comune.
Analogamente, tutta la normativa chiede alle istituzioni scolastiche e formative che compongono il sistema educativo nazionale di istruzione e di formazione di sviluppare atteggiamenti e pratiche di apertura a rete e di scambio sociale cooperativo, superando ogni tentazione di chiusura autoreferenziale.
Così come essa esige, per la funzionalità del sistema educativo nazionale e per realizzare al meglio il servizio alla crescita della persona degli studenti, collaborazione, fiducia e solidarietà tra Amministrazione statale e scuole, tra Invalsi e istituzioni scolastiche, tra scuole statali e non statali, tra famiglia e scuola, tra docenti e studenti, tra scuola e territorio, superando ottiche contrappositive e dialettiche.

Il principio della responsabilità
L'ultima caratteristica del nuovo modello di sistema educativo nazionale di istruzione e di formazione si ritrova nel richiamo al principio di responsabilità. Sussidiarietà, equità e solidarietà non restano, infatti, dichiarazioni teoriche se e quando l'ente amministrativo o la "formazione sociale" più vicini al cittadino, e, progressivamente, le istituzioni che intervengono o per il potere sostitutivo o per garantire l'attuazione del principio d'equità e solidarietà agiscono non solo assumendosi le proprie responsabilità circoscritte per legge, ma richiamando nondimeno tutti gli altri soggetti che compongono la Repubblica ad assumersi e ad esercitare al meglio le loro.
L'aiuto più decisivo da dare a ogni persona, come a ogni ente amministrativo e a ogni "formazione sociale", affinché ciascuno svolga bene le proprie funzioni all'interno della dinamica sociale ed ordinamentale stabilita, consiste, infatti, nel farli il più possibile soggetti della soluzione dei problemi che li riguardano, non nello sgravarli, esonerandoli, dalle loro responsabilità o, peggio ancora, nel ritenerli di principio incapaci di esercitarla. Le persone degli studenti, le famiglie, le scuole, gli enti territoriali ecc. non possono essere considerati oggetti delle decisioni di altri soggetti. Il quadro tracciato dalla riforma costituzionale e dalla legge n. 53/03 impone, invece, di considerare ogni persona, ogni istituzione e ente, ogni "formazione sociale" che costituiscono la Repubblica italiana, tutti, nel loro ambito, soggetti responsabili delle politiche e delle funzioni che li riguardano, consapevoli, ciascuno, certo, dei limiti e delle possibilità dei propri compiti specifici al servizio delle persone, ma proprio per questo anche aperti ad esercitarli in responsabilità, con adeguate e opportune relazioni solidali con tutti gli altri soggetti coinvolti nel servizio educativo alle giovani generazioni.
È per questa ragione, se si passa a qualche esempio, e non solo per rispetto formale del principio di sussidiarietà, che i genitori, se devono sentire il dovere morale di decidere l'anticipo sentendo la scuola e i docenti, restano in ogni caso i responsabili finali della decisione; allo stesso modo, è difficile immaginare che possano esercitare la facoltà di optare per determinate attività didattiche di approfondimento e di completamento fino a 99 ore nella primaria e a 198 nella secondaria di I grado, oltre le 891 obbligatorie, senza coinvolgere ed ascoltare la scuola e i docenti, ma sono poi loro chiamati a decidere; per converso, è difficile, per la scuola e i docenti, predisporre i PSP e procedere alla compilazione del Portfolio delle competenze personali senza coinvolgere le famiglie e condividere con loro scelte e problemi, ma la responsabilità ultima di questi atti non è delle famiglie, ma appunto della scuola e dei docenti. E così via.

2. Il contesto pedagogico
Uno dei problemi più ricorrenti nel mondo della scuola e del discorso pedagogico è costituito dall'uso di espressioni e di termini a cui si attribuiscono significati differenti. Per quanto comprensibile e legittima, la circostanza impedisce spesso un dialogo appropriato e non equivoco, per cui si finisce per non intendersi e per compromettere una ricerca comune delle soluzioni più adatte ai problemi educativi e professionali che si incontrano.
Anche la legge delega, i decreti attuativi e i Documenti nazionali (il Profilo educativo, culturale e professionale e le Indicazioni Nazionali per i Piani di Studio Personalizzati) non si sottraggono a questo limite che è anche un rischio. Adoperano un lessico, tra l'altro talvolta inedito, a cui si possono attribuire significati diversi.
Le presenti Raccomandazioni, pur nei limiti che le caratterizzano, intendono, perciò, contribuire alla definizione di una semantica se non certo da tutti condivisa, almeno sempre dichiarata senza equivoci. Lo scopo è favorire una discussione che, mentre cerca di stare sulle cose piuttosto che sulle parole, aderisca, allo stesso tempo, alla lettera dei testi normativi e ne consenta un'autonoma declinazione professionale nell'ambito dei processi educativi promossi nel sistema formale, non formale e informale.

Dalla scienza alla disciplina di studio
Scienza
. Se l'esperienza, da sola, è sempre particolarità, molteplicità, indeterminatezza, imprevedibilità, indecifrabilità, anche disordine, scienza è, invece, leggere l'esperienza secondo "ragione e misura", "numero e calcolo", "proporzione". Gli elementi per definire una scienza, in questa prospettiva, sono, quindi, tre.
Anzitutto, la specificità. Scienza è leggere l'esperienza, e "vederla", da un punto di vista determinato. Non è mai coglierla tutta insieme, come e in quanto totalità indeterminata, magari confusa. La scienza nasce proprio quando si prescinde dalla complessa totalità di qualsiasi ambito d'esperienza e si seleziona tale complessità per "vederla", "dirla" e "controllarla" meglio. La regola vale per gli oggetti della fisica o della chimica, ma non meno per quelli della linguistica, della storia, dell'arte ecc. Si circoscrive il campo di indagine.
Il secondo elemento che definisce la scienza sono il metodo di indagine e gli strumenti che, in tale metodo, si usano. Non è una caratteristica diversa dalla precedente, ma ne è uno sviluppo.
Avere un determinato punto di vista da cui osservare la realtà significa anche mettere a punto le modalità logiche ed operative con cui tale punto di vista si può costituire.
L'ultimo elemento è dato dal linguaggio o, meglio, dal paradigma esplicativo (tipo di cause e leggi da individuare) e dal programma (l'aspetto della realtà che si vuol capire). Studiare la realtà da un punto di vista parziale, con un metodo e con strumenti ogni volta adeguati a tale punto di vista, significa, infatti, trasformare le "cose" empiriche in "oggetti scientifici". L'attrito, la moda, la mediana, la gravità, l'atomo, l'accelerazione ecc., ma anche tutti i concetti adoperati dalle cosiddette scienze umane, da sviluppo a rito, da classe a potere, perciò, non esistono in sé. Non si trovano cose reali che si danno a noi, nell'esperienza, come attrito, moda, classe, potere, ecc. Sono, invece, nostri costrutti mentali (modelli), esplicativi di determinate caratteristiche empiriche della realtà. Si può dire che siano il nome che diamo a quella serie di relazioni del reale che il punto di osservazione da cui ci poniamo, nonché il metodo e gli strumenti che usiamo per costituirlo, consente a noi, e a chiunque faccia come noi, di cogliere (intersoggettività della scienza). Ebbene, scienza è nominare (nel senso etimologico di 'dare il nome') correttamente questi costrutti mentali, non confonderli tra loro, evidenziare le relazioni logiche inclusive o esclusive che possono instaurare, depurarli delle parti equivoche, evitarne gli usi incrociati. Per questo si dice, spesso, che le scienze sono, tutto sommato, lingue ben fatte: ciascuna con un proprio lessico (una semantica) e una propria sintassi.
Per uno scienziato, non esiste conoscenza che non sia il prodotto di questa inesauribile attività di ricerca giocata sugli elementi prima ricordati. Il nesso processo-prodotto, pensiero-pensato, contenuto-metodo è, per lui, sempre presente e fondamentale.
Materia. Le acquisizioni della scienza sono talmente cresciute sul piano quantitativo, negli ultimi secoli, che, di fatto, capita che troppi concetti e teorie scientifiche risultino dissociati dall'attività di ricerca che li ha elaborati e che dovrebbe ora continuare a sottoporli a vigile manutenzione critica. Non hanno più il ricordo delle condizioni e dei modi con cui sono stati ottenuti; quindi, anche dei loro limiti epistemologici. Hanno la tendenza a debordare e a presentarsi come prodotti autosufficienti ed esistenti in sé e per sé.
Gli "oggetti" scientifici, in questa maniera, nati proprio per non essere "cose", si "ricosificano" e si "materializzano". È come se i costrutti mentali pretendessero di imporsi senza più aver bisogno né del pensiero che li ha pensati e che li pensa, né delle condizioni particolari in cui assumono proprio il significato che esprimono. I concetti e le teorie delle diverse scienze si trasformano così in una dogmatica astratta ed enciclopedica. Si presentano come "risultati" dell'attività scientifica che sembrano non avere avuto "processi" d'origine, prima, e di sviluppo, ora, e che appaiono immutabili ed autosufficienti: al punto da valere in sé, sebbene non li si capisca affatto e non dicano niente a chi li incontra proprio perché, alla fine, non sono da lui "pensati".
Il rischio, allora, è quello del contenutismo fine a se stesso. Non è un caso che il linguaggio comune definisca l'insieme delle conoscenze costruite nel tempo da una scienza, tuttavia presentate dimenticando le dimensioni esistenziali, storiche, metodologiche ed epistemologiche da cui provengono e a cui devono comunque pervenire in ogni soggetto, con il termine di materia: qualcosa di pesante, di opaco, l'esatto contrario della leggerezza e della trasparenza a noi stessi che aderisce a qualsiasi sapere che sia "nostro" pensiero.
Rischio, a dire il vero, molto alto se si interpretassero le conoscenze (il sapere) e le abilità (il sapere che accompagna il fare qualcosa con perizia) che costituiscono gli obiettivi specifici di apprendimento presentati nelle Indicazioni Nazionali come l'indice di una enciclopedia da imparare a memoria, invece che come la carta topografica di tante attese di pensiero che devono maturare autonomamente e personalmente nella mente e nella personalità di ciascun allievo davanti alla sua esperienza e grazie alle sollecitazioni educative dei docenti e della scuola.
Disciplina di studio. Tutta un'altra atmosfera evoca, invece, rispetto alla materia, il termine disciplina di studio. Disciplina viene da discere, imparare. Da discere viene anche discepolo, colui che impara. L'apprendere è bello, e tutti gli uomini lo vogliono sperimentare. Eppure, sebbene l'amore per il sapere sia connaturato all'uomo e gli dia intima soddisfazione, l'imparare alcunché, esige sudore, impegno, fatica, esercizio. Questo significa che le conoscenze non nascono tutte intere nella mente già armate come Pallade nel cervello di Zeus, ma scaturiscono sempre da una continua negoziazione con l'esperienza e con gli altri, negoziazione che impone pazienza, disponibilità, relazione, affetti, carattere, costanza, responsabilità.
In ogni insegnare, quindi, non è in gioco soltanto ciò che si insegna, il "che cosa", ovvero il sapere; né soltanto il "come si fa"; conta altrettanto il "chi". Non si impara, infatti, se l'ordine logico di una serie di costrutti scientifici non coincide anche con quello psicologico ed etico personale di chi se ne appropria; né si impara qualcosa perché essa è, in astratto, scientificamente certa, ma solo se riusciamo, nel concreto, a rendere questo qualcosa di certo nostra verità esistenziale, qualcosa di talmente significativo per noi da dare "sapore" alla nostra vita e al nostro rapporto con gli altri (il reciproco richiamo tra "sapore" e "sapere" è addirittura etimologico).
È del tutto comprensibile, perciò, che il termine disciplina di studio sia molto usato in campo scolastico e designi un doppio significato. Per un verso, si riferisca al modo psicologico e, più generalmente, esistenziale e relazionale, con cui è necessario che ciascuno si appropri delle conoscenze e delle abilità afferenti ad una particolare pratica scientifica. Per l'altro, indichi il fatto che tali conoscenze ed abilità nascono dall'assunzione rigorosa della stessa logica della scienza.
Come e a quali condizioni le due prospettive si possono integrare e non restare estranee? È possibile nella scuola, tanto più con soggetti in età evolutiva, non trattare la ricerca scientifica (scienza) alla stregua di contenuti materiali (materia), ma utilizzarla, senza tradirla nella sua complessità, come occasione per promuovere processi di apprendimento e di pensiero significativi per sé e per gli altri (disciplina di studio)? Come favorire l'apprendimento personale senza banalizzare, con distorsioni e semplificazioni, la natura degli "oggetti di studio" identificati dalle scienze e richiamati, per gli insegnanti, negli obiettivi specifici di apprendimento? Non si fatica ad immaginare quanto il cuore della professionalità docente e della qualità della scuola siano fondati sulla competenza nel rispondere a questi interrogativi.

Dalle capacità alle competenze attraverso conoscenze e abilità
Il testo della legge delega usa più volte i termini capacità, conoscenze, abilità e competenze.
Li impiega in una maniera che presuppone e si integra con quella adoperata negli articoli 8 e 13 del Dpr 275. Il Profilo educativo, culturale e professionale dello studente alla fine del I ciclo di istruzione e le Indicazioni Nazionali per i Piani di Studio Personalizzati fanno riferimento a questi termini assumendoli nel significato che risulta dal combinato disposto di questi due provvedimenti e che si può riassumere nei modi seguenti.
Capacità. Per capacità si intende una potenzialità e una propensione dell'essere umano, nel nostro caso dell'allievo, a fare, pensare, agire in un certo modo. Riguarda ciò che una persona può fare, pensare e agire, senza per questo aver già trasformato questa sua possibilità (poter essere) in una sua realtà (essere).
Riguardando l'essere potenziale di ciascuno, le capacità non sono mai statiche, definite una volta per tutte, ma sempre dinamiche, in evoluzione. Inoltre, se pure si manifestano come capacità particolari e determinate (si è capaci di questo piuttosto che di quello, in una situazione piuttosto che in un'altra), coinvolgono però sempre tutto ciò che siamo e che possiamo essere. Chi pensa, in questo senso, le capacità delle persone come separate e separabili le une dalle altre (come se un soggetto fosse capace di comunicare piuttosto che di matematizzare, di costruire determinate cose piuttosto che di usarle bene, di giudicare criticamente piuttosto che di fidarsi ecc.), ne impoverisce la forza educativa: esse, al contrario, sono sempre unitarie ed integrate e, per questo, si vicariano anche molto a vicenda, così spiegando la plasticità e la complessità di ogni persona umana e perché, in educazione, grazie al principio dell'integralità, niente, a qualsiasi aspetto ci si riferisca, è mai guadagnato una volta per tutte, niente è mai perduto per sempre.
Competenza. Le competenze sono l'insieme delle buone capacità potenziali di ciascuno portate al miglior compimento nelle particolari situazioni date: ovvero indicano quello che siamo effettivamente in grado di fare, pensare e agire, adesso, nell'unità della nostra persona, dinanzi all'unità complessa dei problemi e delle situazioni di un certo tipo (professionali e non professionali) che siamo chiamati ad affrontare e risolvere in un determinato contesto.
Mentre le capacità esprimono la forma dell'essere potenziale di ciascuno, le competenze manifestano, quindi, quella del nostro essere attuale, nelle diverse contingenze date.
Le une e le altre, ovviamente, sempre dinamiche, in evoluzione, visto che non solo si può essere diversi fino alla fine della vita, e scoprire nel tempo capacità insospettate, ma si è anche sempre diversi fino alla fine della vita, cioè si verifica, di fatto, di essere diversamente competenti, nei diversi contesti e nelle diverse situazioni che a mano a mano ci è dato affrontare e risolvere.
Le une e le altre, inoltre, per quanto particolari e determinate (per esempio, si è "capaci di analisi critica" e si dimostra, in un contesto, di fronte a qualcosa di specifico, "competenza nell'analisi critica"), sono sempre unitarie e integrate (per continuare l'esempio, non esiste una "capacità critica" che non sia anche connessa con "capacità estetiche, sociali, manuali ecc.", così come non si può mai dimostrare una "competenza di analisi critica" isolata, ma, nel dar prova di questo, si offre allo stesso tempo anche testimonianza di "competenza estetica, sociale, manuale ecc.").
Da questo punto di vista, come suggerisce anche l'etimologia del termine, e in particolare il cum che precede il petere, "com-petente" è non solo chi si muove "insieme a", "con" altri in un contesto (valore sociale della collaborazione e della cooperazione) per affrontare un compito o risolvere un problema; non solo chi si sforza di cogliere l'unità complessa anche del compito o del problema più parziale che incontra, ma chi pratica la prima e la seconda preoccupazione coinvolgendo sempre, momento dopo momento, tutta insieme la sua persona, la parte intellettuale, ma non meno quella emotiva, operativa, sociale, estetica, motoria, morale e religiosa. È quindi "com-petente" chi "mette insieme" tante dimensioni nell'affrontare un compito, lo affronta bene e, in questo, dà sempre tutto il meglio di tutto se stesso.
La circostanza spiega perché, se la competenza rimane sempre ancorata allo specifico contesto ambientale, sociale, culturale e professionale in cui è maturata e nel quale ha dato prova di sé, e risulta pure attivata da esso, essa è, però, allo stesso tempo, tale se si svincola da questo specifico contesto e si proietta su altri contesti che proprio l'apprezzamento critico e intuitivo del soggetto riconosce analoghi, cioè per certi aspetti uguali, a quello di origine.
Il competente, quindi, attiva le competenze che possiede anche in situazioni differenti da quelle originarie che li ha viste nascere e consolidare (trasferimento analogico: questo è il senso della trasversalità delle competenze); inoltre, procede a questa attivazione perché e nella misura in cui 'coglie' caratteristiche comuni esistenti in contesti tra loro differenti (astrazione: questo il senso del carattere "meta" di ogni autentica competenza: "metacognitiva, meta-affettiva, meta-operativa ecc."); infine, pratica analogia e astrazione per risolvere in maniera operativa quanto costituisce per lui problema e per rispondere in modo pertinente a quanto sente bisogno o che vive come scopo da raggiungere e progetto da realizzare (operatività della competenza: una competenza invisibile o ineffabile, che si vede solo nella scuola e non anche nell'extrascuola non esiste).
Conoscenze e abilità. Per quanto possano valere distinzioni analitiche che, nella realtà, non esistono perché si richiamano sempre a vicenda, si può sostenere che la differenza tra conoscenze ed abilità si possa rintracciare nelle seguenti caratteristiche.
Le conoscenze sono il prodotto dell'attività teoretica dell'uomo. Nella scuola, sono soprattutto quelle ricavate dai risultati della ricerca scientifica, accumulatisi nella "cultura" di una civiltà.
Riguardano, quindi, il sapere che una società intende trasmettere alle nuove generazioni, e non obliare, perché, a suo avviso, non è solo "importante e valevole" in sé, ma anche perché, se interiorizzato, è ritenuto particolarmente generativo, condizione per l'ulteriore e inesauribile potenziamento di sé. Sono naturalmente conoscenze anche i principi, le regole, le teorie dell'etica individuale e collettiva (valori civili costituzionali, nazionali o sovranazionali) che, nelle Indicazioni Nazionali, costituiscono gli "obiettivi specifici di apprendimento" della Convivenza civile.
Le abilità sono la condizione e il prodotto della razionalità tecnica dell'uomo. Sono anch'esse sapere, ma del fare: si riferiscono, quindi, al saper fare. Non sono fare, ma appunto un fare di cui si sanno, si comprendono le ragioni, le procedure, gli scopi, i prodotti. In altre parole, sono un sapere perché operando in un certo modo e rispettando determinate procedure operative si ottengono determinati risultati piuttosto di altri. Anch'esse ritenute dalla società non solo "importanti e valevoli" in sé, rispetto ad altre non reputate tali, ma anche "generative", condizione per l'ulteriore e inesauribile crescita della "cultura" umana.
Le conoscenze e le abilità che costituiscono gli "obiettivi specifici di apprendimento" delle Indicazioni nazionali non sono già patrimonio personale (competenze) delle giovani generazioni (educazione). Se così fosse ritenuto, infatti, non si vedrebbe ragione di volerle conservare e trasmettere attraverso la scuola. Lo possono, però diventare perché le persone hanno le capacità di acquisirle, grazie all'insegnamento e all'apprendimento intenzionale ed organizzato (istruzione).

Dalle capacità alle competenze. Le capacità personali diventano competenze personali grazie all'insieme degli interventi educativi promossi da tutte le istituzioni educative formali, non formali e informali.
A scuola, però, l'istituzione educativa formale per eccellenza, le capacità di ciascuno diventano competenze personali grazie all'impiego formativo delle conoscenze e delle abilità che lo Stato, d'intesa con le Regioni per le loro quote, reputa valore trasmettere alle nuove generazioni.
Esse sono raccolte nelle Indicazioni Nazionali sotto la voce "obiettivi specifici di apprendimento", che l'art. 8 comma 1, punto b del Dpr 275/99 definisce "relativi alle competenze degli alunni", ovvero correlati, come scopo del proprio essere formulati, alle competenze da promuovere negli studenti.
Nella scuola, le capacità personali degli allievi (capacità intellettuali, emotive, espressive, estetiche, operative, motorie, sociali, morali, spirituali, religiose), grazie alla mediazione intenzionalmente organizzata delle conoscenze e delle abilità (della "cultura"), diventano competenze personali attraverso l'adozione di tre principali strategie formative declinate in ambienti di apprendimento basati sui rapporti docente-allievo, docente-gruppo classe o docentegruppi di classe/interclasse di livello, di compito ed elettivi.
Queste strategie formative, in verità, non esistono da sole, separate. Non vanno, perciò, interpretate come alternative o cronologicamente e logicamente successive, ma piuttosto come integrative e circolari. Sono una nell'altra. Questo non impedisce, tuttavia, di riconoscere che, a seconda delle situazioni di apprendimento che si riescono a organizzare, a seconda delle capacità personali di ciascuno e a seconda delle conoscenze e delle abilità che si intendono usare allo scopo di promuovere competenze personali, si assista al prevalere, e alla maggiore efficacia, ora dell'una, ora dell'altra.
- Insegnamento verbale. La prima strategia adoperata dalla scuola per trasformare le capacità in competenze personali è l'insegnamento verbale delle conoscenze e delle abilità. Come è noto, si può insegnare soltanto ciò che si sa e che si riesce a comunicare con chiarezza. In questo senso, si possono trasmettere da una mente all'altra solo principi, regole, concetti, idee, procedure: cioè qualcosa di intellettuale. È importante sottolineare, tuttavia, che, se è vero che nessuno può insegnare qualcosa che non sia un "sapere" o un "sapere del fare" o un "sapere dell'agire", è non meno vero che nessuno può insegnare in maniera formativa qualcosa che non si sia trasformato a sua volta in "competenza personale", suo modo di "essere". Un'idea teoretica, una sequenza tecnica o un valore etico-civile che non siano penetrati nell'animo di chi li insegna verbalmente, infatti, e non siano, quindi, diventati importanti e significativi per il suo modo di essere e di vivere con gli altri, con difficoltà riescono ad essere insegnabili in maniera formativa. Restano qualcosa di meccanico. Sarebbe, d'altra parte, eccessivo pretendere di insegnare conoscenze ed abilità matematiche o di qualsiasi altra disciplina a qualcuno, se esse non fossero per chi le insegna anche un modo per allargare e perfezionare tutte le proprie capacità personali e per trasformarle dinamicamente in competenze sempre maggiori e migliori (educazione permanente, long life learning).
- Esempio e tirocinio formativi. L'esperienza che ciascuno di noi ha accumulato, nonché l'essere che si è, ovvero l'insieme delle capacità e delle competenze di ciascuno, non essendo "sapere" concettuale, non sono insegnabili per definizione. Non si possono trasmettere o lasciare in eredità a qualcuno anche quando sono eccellenti: sono e restano solo nostre. Perché questo non accada, la scuola ha a disposizione lo strumento dell'esempio e del tirocinio formativi. Con essi, il maestro non mostra all'allievo soltanto l'esibizione di ciò che gli richiede. Non fa soltanto vedere all'allievo come si fa e si agisce quando si è "competenti", in qualsiasi campo. Esplicita anche verbalmente le azioni che compie e le loro ragioni. In questo modo, non solo diventa un suo modello da imitare, ma aiuta l'allievo ad elaborare personalmente una struttura conoscitiva che sostiene la sua replica delle azioni esemplificate. Più che il maestro che insegna, quindi, è l'allievo che impara. Egli ripete in modo progressivamente sempre più consapevole ciò che ha fatto o sta facendo il maestro, sicuro che questi lo assiste e lo sostiene, fermandolo se sbaglia, chiarendogli un passaggio saltato, facendolo riflettere a voce alta con domande appropriate su determinate azioni o situazioni ecc. L'allievo stesso si interroga sulla propria prestazione e riflette sui modi per migliorarla, confrontandosi con i pari, con il suo maestro o con altri maestri, e negoziando con loro i suoi interventi. Nel momento in cui questi gli riconosceranno la competenza maturata, egli la eserciterà autonomamente con professionalità (di solito si intende il "professionale" come qualcosa che abbia a che fare soltanto con l'esercizio di un mestiere; in realtà, la dimensione "professionale" riguarda la dimostrazione di qualsiasi competenza personale: significa che la si esercita con autorità, in pubblico, con perizia, e che gli altri riconoscono queste qualità: è "professionale", in questo senso, anche un bambino quando, al suo livello, è competente, per esempio, nella scrittura o nella narrazione dei miti).
- Esercizio. L'ultima strategia disponibile nella scuola per trasformare le capacità in competenze personali attraverso il ruolo specifico delle conoscenze e delle abilità è il correlato soggettivo dell'esempio/tirocinio formativi: l'esercizio. L'esempio oggettivo del docente (o dell'allievo più esperto) diventa, infatti, occasione, per l'alunno principiante, di scoprire il valore dell'esercizio personale in due sensi.
Anzitutto, perché nessuno resta competente se non esercita in continuazione le proprie capacità confrontandosi con conoscenze e abilità sempre nuove che si devono integrare con quelle già possedute. Un pianista che intendesse mantenere la sua expertise professionale senza più interpretare nuovi brani, studiare e ricercare sul repertorio già acquisito sarebbe condannato, a poco a poco, a perderla. Allo stesso modo, nessun allievo può pretendere di mantenere vive anche le competenze più eccellenti e sicure che già possiede se non le arricchisce di sempre nuovi confronti, studi e ulteriori aggiustamenti.
L'esempio del docente (o dell'allievo più esperto), in secondo luogo, diventa occasione, per l'alunno principiante, di apprendere il valore dell'esercizio personale perché nessuno, da incompetente, diventa competente senza maturare buone abitudini, cioè senza aver ripetuto più volte singoli atti di cui comprende e condivide, anche solo nel complesso, significato e ragione, tanto da renderli, poi, quasi, una specie di disposizione spontanea della propria natura. Non basta, insomma, poter osservare più e più volte qualcuno che sia competente in un settore o in un altro, e sia riconosciuto tale da tutti, per diventare a nostra volta competenti in quel settore. Occorre che l'esempio dell'esperto diventi occasione e stimolo, per il principiante, di motivante esercizio emulativo: ripetere più volte, reinterpretandolo personalmente, il gesto competente, fino a trasformarlo in abitudine. E in questa ripetizione mirare sempre al meglio possibile. Che cos'è, del resto, la "perfezione" se non l'ultimo di una serie di gesti che, pur essendo stati ripetuti più volte, non hanno ancora né soddisfatto del tutto noi, né soddisfatto del tutto il "giudizio" degli altri?
Inutile sottolineare che l'esercizio è incompatibile con il disinteresse e la mancata motivazione. Il compito deve essere sempre considerato, da chi lo svolge, un fine significativo per sé, un'occasione per migliorarsi. Viceversa, l'esercizio non implica più la fatica e l'impegno che provengono dalla concentrazione al risultato, ma diventa soltanto un'afflizione da evitare il più possibile.
Oltre il determinismo. Nessuna delle tre strategie segnalate, e anche la loro unitaria ed armonica integrazione, in qualsiasi condizione organizzativa e relazionale sia realizzata, assicura, tuttavia, magari in modo "deterministico", la trasformazione delle capacità personali nelle competenze volute. Non si può sostenere, insomma, che, in un ambiente di apprendimento opportuno, dati alcuni esempi sviluppati nel tirocinio formativo, una serie determinata e puntuale di esercizi e un insegnamento verbale ben programmato e organizzato di conoscenze ed abilità, risulti come conseguenza necessaria la messa in atto delle capacità potenziali di ciascun allievo nei termini delle competenze attese. È senza dubbio vero che esempi/tirocini formativi, esercizi e insegnamento verbale "causano" risposte di apprendimento nell'allievo, e maturazione di sue competenze. Questo rapporto causale, tuttavia, non è mai "deterministico", ma è invece sempre aperto e relazionale perché coinvolge la libertà della persona, la complessità dei contesti e gli effetti imprevisti delle azioni umane.
Competenza professionale dei docenti è, quindi, non pretendere una programmazione deduttiva e deterministica dell'insegnamento, e tantomeno stabilire il successo o l'insuccesso di esso in base alla corrispondenza esistente tra l'ordine e la connessione della programmazione stilata e l'ordine e la connessione del concreto sviluppo delle attività educative e didattiche.
Al contrario, dopo aver organizzato intenzionalmente solo a grandi linee, a priori, i propri interventi educativi e didattici (formulazione dello "scenario": fase pre attiva), dimostrare la saggezza di adattarli in itinere alle "sorprese" e agli "imprevisti" che accadono nella fase attiva, nonché apprendere, a posteriori, nella fase post attiva, riflettendo sulle ragioni dello scarto tra progettato e realizzato e sul modo con cui ci si è comportati, a fare meglio in futuro e, soprattutto, ad affrontare con sempre maggiore competenza le novità e le specificità che ogni situazione di apprendimento ogni volta comporta.

Dalla diversità come limite alla diversità come opportunità
Ciascun allievo porta a scuola tutto l'intreccio di affetti, emozioni, conoscenze, esperienze e relazioni che costituiscono la sua cultura, e quindi la sua identità personale. Un'identità per certi aspetti di tipo spaziale, per altri temporale; per alcuni aspetti legata alla famiglia e alla tradizione, per altri alle più radicali discontinuità del virtuale e dei messaggi massmediologici più o meno adulterati; da una parte di tipo collettivo, dall'altra di natura individualmente stilistica, emozionale, corporea.
Proprio a scuola, ogni allievo ha la possibilità non solo di scoprire le varie sfaccettature della propria identità, ma anche di sperimentare concretamente quelle degli altri, ora sempre più anche quelle di compagni provenienti da altre regioni e da altri Paesi del mondo, con storie molto diverse dalle proprie, altri modi di vivere e di raccontare la diversità tra maschi e femmine, il temperamento, il carattere, i valori, le capacità personali ecc.
Davanti a questa ineliminabile condizione di molteplicità si aprono due strade: quella dei tentativi di riduzione forzata ad un'unità omogenea ed uniforme, tipica delle culture e delle appartenenze chiuse e totalizzanti; quella che, invece, prende atto delle diversità, le tematizza e le trasforma, attraverso l'incontro, la ricerca e la reciprocità, in una ricchezza comune. La scuola è chiamata ad intraprendere questa seconda strada.
Si tratta, quindi, anzitutto, di rendere consapevole lo studente della circostanza di avere già di per se stesso un'identità che è frutto, anche quando non lo appare, della combinazione unica e irripetibile di percorsi e di storie diverse, vicine e lontane, personali e familiari, di gruppo e sociali.
In secondo luogo, di fargli toccare con mano quanto la circostanza sia comune anche a tutti gli altri, compagni, docenti, adulti, per cui consolidare la propria identità, in questo contesto, non può semplicemente significare un'estensione di quella personale a quella altrui, di ciò che è prossimo a ciò che è remoto, oppure di ciò che è più forte a ciò che è più debole, oppure ancora la semplice addizione di stili e modi di vita differenti ma incompatibili, bensì intraprendere un percorso più lungo e faticoso che, tuttavia, si presenta anche come efficace sul piano personale e sociale. È il percorso della riflessione sempre aperta sul gioco delle affinità e delle differenze reciproche per elaborare senza semplificazioni, in un processo mai terminato di comunicazioni e di aggiustamenti, un modo di essere se stessi e di stare con gli altri che trasforma il riconoscimento delle differenze in opportunità di affermazione personale, di relazione e di interdipendenza sociale, di ricerca culturale e scientifica e di responsabile scelta morale.
La logica del positivo. Se si assume l'ottica che ciascuno di noi è "diverso" dall'altro, con i suoi pregi e i suoi difetti, le sue potenzialità e i suoi limiti, si ribalta la logica con cui si è tradizionalmente guardato ed affrontato il problema della diversità nella scuola.
Non è più questione, infatti, di integrare nessuno in una astratta normalità predefinita che poi si traduce in propensione all'uniformità, bensì di valorizzare al meglio le dotazioni personali, escludendo qualunque modalità stereotipata di approccio alla pluralità di situazioni e di prestazioni che caratterizzano ogni essere umano. Le diversità di ciascuno, in altri termini, segno di una possibile ricchezza per tutti nel momento in cui ciascuna fosse ottimizzata e impiegata, con creatività, come intenzionale contributo ad un'inclusione sempre più ampia e ad un'affermazione di sé sempre più congrua anche a quella degli altri, nel mondo e nella società.
Per questo non bisogna mai definire nessuna persona per sottrazione: non ha, non sa, non sa fare, non può fare questo e quello. Questo atteggiamento porta alla chiusura e all'arroganza. Sul piano educativo, infatti, non è mai la carenza di alcunché che può contraddistinguere chiunque, ma la sua capacità di sentire, di fare, di agire e di pensare nell'unico modo specifico e personale che gli è concesso. È da qui, dal positivo, dunque, che si inaugura l'educazione, che non è poi altro che lo sviluppo dell'unità e dell'integralità di se stessi a partire dalle capacità unitarie e integrali che si possiedono.
Sapienza didattica è assecondare questo percorso evolutivo che consente a ciascuno di essere un tutto, una persona integrale, nel tempo e nello spazio, pur potendo sempre contare al meglio solo su alcune parti di sé; e di scoprire che la persona integrale, come ogni tutto, è per definizione una miniera inesauribile di risorse e di energie, perciò mai 'sfruttata' fino in fondo e una volta per sempre. Per questo, così sorprendente e generativa da affermarsi perfino quando i limiti e i condizionamenti sembrerebbero comprimerla in maniera invincibile.
La personalizzazione. Si giustifica in questo contesto il richiamo alla personalizzazione nei processi formativi. Personalizzare significa aprire, accrescere, liberare, moltiplicare le capacità e le competenze personali di ciascuno; dare a ciascuno il proprio che è unico e irripetibile; valorizzare le identità personali, non svilirle, ma considerarle la condizione per un dialogo fecondo con altre identità che possono, così, perfezionarsi a vicenda.
Personalizzare significa diffidare della tentazione di dare a tutti, per principio, le stesse cose, magari per lo stesso tempo e allo stesso modo. Non è personalizzare nemmeno dare a tutti le stesse cose in tempi e modi diversi. Non lo è perché, in questo caso, si continua a presupporre una concezione "oggettualistica" e "digestiva" della formazione, quasi esistesse un fine esterno alla persona a cui essa deve adattarsi e che, quindi, vale più della persona che lo deve raggiungere; e, soprattutto, quasi esistesse una "stessa cosa", nel nostro caso una serie di conoscenze e di abilità prestabilite a livello nazionale, che avrebbe in sé una consistenza valoriale indipendente dalle condizioni di contesto, di processo e di relazione che la rendono apprezzabile, per cui essa andrebbe comunque "deglutita" nelle forme e nei modi stabiliti a priori.
Il processo formativo si ridurrebbe ad un processo di plasmazione e di adattamento dove, sotto l'apparenza di modellare le conoscenze e le abilità alle capacità e alle competenze personali di partenza dell'allievo, si nasconderebbe, in realtà, il proposito contrario. Per esempio, progettare percorsi didattici anche differenziati per far sì che ogni studente, in modi e tempi diversi, apprenda in ogni caso le conoscenze e le abilità elencate nelle Indicazioni nazionali nelle forme e nel grado standard prestabilito dal docente. Le conoscenze e le abilità, quindi, poste a fine dell'attività formativa della scuola.
La personalizzazione inverte, invece, questa gerarchia. Usa le conoscenze e le abilità elencate nelle Indicazioni nazionali come mezzo per progettare professionalmente percorsi formativi che, a partire da esse, rispondano, però, alle capacità uniche e irripetibili di ciascuno, avvalorandole al massimo. Il fine è la persona dello studente e la maturazione globale migliore possibile delle sue capacità, nei contesti, nei processi e nelle relazione date. Non c'è un contenuto astratto e predefinito uguale per tutti da trasmettere poi individualmente e che tutti assorbono allo stesso modo, non c'è uno scambio a senso unico tra chi possederebbe il contenuto in questione e chi ancora non lo avrebbe acquisito, ma una mediazione perpetua di apprendimenti interpersonali, fatta di contagi e di fili che si incrociano tra maestro e allievo e tra l'allievo e i compagni, tra comunità scolastica e ambiente, i quali fanno sì che le stesse conoscenze ed abilità elencate nelle Indicazioni nazionali siano "personalizzate" da ciascuno in maniera diversa e pure trasformino le capacità di ciascuno in competenze personali non necessariamente standardizzate.
Si potrebbe temere la fortissima responsabilizzazione che è assegnata, con questa impostazione, ai docenti e alla scuola. La "massima valorizzazione possibile" delle capacità personali e la "maturazione globale migliore possibile" della persona di ogni studente è affidata agli uni e all'altra. Se, per tante ragioni, i docenti e la scuola sottostimano le capacità personali degli studenti non si rischia, in questo modo, di giustificare livelli di apprendimento modesti e di contribuire alla svalutazione delle persone invece che al suo opposto?
Per chi nutre questa sfiducia nella professionalità dei docenti, nell'autonomia delle istituzioni scolastiche e nel ruolo di negoziazione e cooperazione educativa che le famiglie devono assumere nel nuovo sistema educativo nazionale di istruzione e di formazione potrebbe essere rassicurante avere a disposizione non solo l'elenco nazionale delle conoscenze e delle abilità da insegnare, ma anche trovare stabiliti, sempre a livello nazionale, uguali per tutti, gli standard di prestazione attesi a riguardo di ogni conoscenza ed abilità presente nell'elenco. Ancora di più potrebbe essere rassicurante avere a disposizione una descrizione compiuta addirittura delle competenze personali finali che l'acquisizione delle conoscenze ed abilità agli standard di prestazione attesi a livello nazionale dovrebbe aver maturato in ogni studente. Non nascerebbero più equivoci. Tutti gli studenti del Paese o raggiungerebbero gli standard di prestazione e le competenze descritte a livello nazionale oppure significa che i docenti e la scuola avrebbero ancora molto lavoro formativo da svolgere. La valutazione apparirebbe facile. Niente di più illusorio, però.
Prima di tutto perché gli standard di prestazione attesi relativi alle conoscenze e alle abilità non potrebbero essere che di norma e, per principio, non di criterio, validi quindi per le capacità di ciascun studente. Bisognerebbe comunque, perciò, coinvolgere i docenti e la scuola. In secondo luogo, perché affermare la contestualità delle competenze e poi pretendere di darne una definizione a priori, addirittura nazionale, decontestualizzata dai tempi, dai modi, dai processi, dalle relazioni reali nelle quali si manifesterà, è una contraddizione. Solo chi accompagna giorno per giorno la crescita educativa degli studenti, e vede questi ultimi in azione davanti a problemi, compiti e relazioni umane reali, ovvero i docenti e la scuola, con l'aiuto della famiglia, può essere davvero in grado di documentare in maniera affidabile la maturazione delle competenze. In terzo luogo, ed è l'aspetto principale, perché, con queste scelte, si vanificherebbero i principi di sussidiarietà e di responsabilità posti invece a base del nostro sistema educativo nazionale di istruzione e di formazione. Non esiste, infatti, processo formativo che non parta dalla centralità della persona di ogni singolo studente, e di chi partecipa direttamente, in situazione, alla sua crescita personale: prima di tutto il soggetto stesso, poi i genitori, i docenti, i compagni. Non esiste, perciò, nella scuola dell'autonomia costituzionalmente garantita, un processo formativo del quale i docenti, al pari di ogni professionista, non siano direttamente responsabili, nella qualità e nella quantità, e non siano successivamente chiamati a "renderne conto". Ma appunto a "renderne conto", nel senso che sono loro, in situazione, e non enti o esperti 'lontani':
a) a decidere che cosa, quando, quanto, come richiedere a ciascun studente e a decidere se e quando ritenersi soddisfatti dei risultati da lui acquisiti;
b) in base alle scelte compiute e realizzate, a dover poi spiegare motivatamente e ragionatamente agli studenti stessi innanzitutto e nondimeno alle famiglie, alla società, allo Stato (con il suo Servizio nazionale di valutazione), perché, nella situazione data, non esistevano scelte migliori di quelle adottate.
Se, dunque, lo Stato, come dispone l'articolo 8 del Dpr. 275/99, detta gli ordinamenti del sistema educativo di istruzione e di formazione, gli "obiettivi generali del processo formativo", gli "obiettivi specifici di apprendimento", gli "standard di prestazione del servizio" dei docenti (non degli "obiettivi specifici di apprendimento" degli studenti), i "criteri generali per la valutazione", è responsabilità di ogni istituzione scolastica e dei soggetti che la costituiscono concretizzare in termini di tempo, luogo, azione, standard di apprendimento, quantità e qualità adatti ai singoli studenti tutti questi vincoli esterni, in quanto tali per forza di cose astratti.

La cultura dell'handicap. Collocare in questo quadro teorico il problema degli allievi in situazione di handicap nei Gruppi classe o di classe/interclasse di livello, di compito ed elettivi significa revisionare alcuni stereotipi.
Il primo è quello che divide gli allievi in due categorie: i "normali" e i "portatori di handicap", a cui consegue che i primi hanno bisogno di una didattica e di un'organizzazione "normale" e i secondi di una didattica e di un'organizzazione "speciale". Non si tratta di negare la pesantezza dell'handicap, quando esiste, e di fingere che i ragazzi che lo vivono siano uguali ai compagni che non lo vivono. Si tratta invece di comprendere che il principio della diversità interessa tutte le persone e che, semmai, è proprio questo che le fa uguali. Categorie astratte come "normali" e "speciali", quindi, in educazione, non esistono. Esistono sempre persone concrete, con la loro unicità e irripetibilità di capacità e di competenze, con le loro identità diverse. Del resto, è stata proprio la ricca esperienza vantata dal nostro Paese in tema di integrazione dei ragazzi in situazione di handicap nei gruppi classe degli ordinari corsi di studio ad insegnare questa consapevolezza. Occorre, perciò, impegnarsi per una didattica e per un'organizzazione che, integrando le diversità e valorizzando il contributo che ciascuna può apportare allo scambio reciproco e ad un progetto comune di gruppo classe e di scuola, scopre la personalizzazione come criterio fondamentale del proprio costituirsi.
Collocare il problema degli allievi in situazione di handicap nel contesto di una generale valorizzazione delle identità personali serve, in secondo luogo, a condannare il facilismo didattico giustificato con il moralismo pedagogico. Questi atteggiamenti rischiano, infatti, di tenere il processo di apprendimento dei ragazzi in situazione di handicap, come di qualunque altro allievo, fermo ed immobile, prigioniero di un pensiero improntato al timore del rischio, alla cultura dell'autoconservazione, all'oblio del principio secondo il quale l'integrazione di chiunque nello spazio simbolico della cultura e nelle relazioni tipiche della Convivenza civile richiede innanzi tutto una pedagogia della speranza e del coraggio (molto simile a quella genitoriale), che proietta con fiducia gli allievi verso positive prospettive personali di vita e di cultura, e rispetta la loro dignità di uomini che si immaginano e si costruiscono il futuro, a partire dal proprio. Il risultato è una scuola di bassa qualità, che scambia il "diritto al successo formativo" con intrattenimenti più o meno assistenzialistici e con le "promozioni" solo formali alle classi successive.
Collocare il problema degli allievi in situazione di handicap nel contesto di un generale avvaloramento della diversità personali, infine, serve anche a condannare le fughe tecniciste, siano esse di tipo psicologizzante oppure riabilitativo e medicalizzante. Queste prospettive, infatti, sono più etiologiche che prospettiche; guardano più alle cause che ai fini; colgono e lavorano più sui deficit che sul positivo di ciascuno. Privilegiano, insomma, nell'accostarsi alle persone, lo sguardo della parzialità del sintomo più che quello della integralità della persona, com'è e deve essere quello educativo. Ora, è doveroso confrontarsi con i Profili dinamici funzionali (soprattutto se non ripropongono gli assi dei tradizionali manuali diagnostici statistici per le malattie della mente). Né è di per sé negativo avere nel Piano Educativo Individualizzato di un allievo in situazione di handicap documenti di natura medico-riabilitativa. Ciò che pare importante, però, è non fermarsi a questo punto, ma affermare la specificità dello sguardo pedagogico; sguardo che, pur partendo da prospettive parziali, punta sempre, come si anticipava, a sollecitare un progetto di vita globale per la persona che c'è, nella sua unità, globalità e irripetibilità, consapevoli che essa è in divenire e possiede comunque risorse originali, sorprendenti e creative è professionalità scoprirle e valorizzarle in prospettiva educativa.

L'esempio dislessia. Il discorso si ripete, per esempio, a proposito di quei ragazzi che pur essendo intellettualmente dotati nella media, se non, spesso, oltre la media, sono, tuttavia, affetti da dislessia, disgrafia, discalculia fino alle disprassie e alle disritmie. L'insistenza sul sintomo o, ancora peggio, il suo mancato riconoscimento soprattutto dopo il primo biennio, rischia di creare notevolissime difficoltà all'allievo. Nel primo caso gli crea prima ansia da prestazione e poi frustrazione e autosvalutazione. Nel secondo caso, scambiando per negligenza o pigrizia ciò che è invece da addebitare a precise cause di natura neurologica, gli determina addirittura un vero e proprio blocco della volontà di apprendere, così sprecando un'intelligenza che era vivida e perfino superiore.
Se il successo nell'apprendere è la motivazione più importante ad apprendere per chiunque, è naturale che occorra costruire per questi allievi un setting pedagogico che li ponga nelle condizioni di sfruttare la pur notevole intelligenza di cui sono dotati. Sarà allora necessario non solo poter contare su una precisa diagnosi prodotta da specialisti (neuropsichiatra, logopedista) per riconoscere il disturbo, ma anche, per non dire soprattutto, aggirare la didattica del sintomo.
Infatti, se la competenza nella lettura e nella scrittura è indispensabile nell'apprendimento di tutte le discipline, ma, allo stesso tempo, se è proprio su questa competenza che i soggetti con queste particolari patologie non riescono ad avere successo, è gioco forza chiedere alla scuola di trovare canali d'apprendimento diversi dalla lettura ad alta voce, dalle verifiche scritte, dalla copiatura di testi o di consegne ecc., ma molto più basati sulle dimensioni multisensoriali dell'operare, del toccare e del vedere. Per esempio, bisognerebbe adoperare calcolatrici, registratori, videoscrittura con correttore ortografico incorporato, sintesi vocali, schemi e sequenze iconiche.
Oppure, bypassando ogni riferimento alla lettoscrittura, agire sulla pura costruzione mentale, modalità di apprendimento, come è noto, che sta nella parte più alta di qualsiasi tassonomia delle capacità cognitive.
In questa direzione, è necessario, allora, affiancare all'insegnamento sempre condotto nel Gruppo classe, di solito standardizzato, con quello svolto in Gruppi di classe/interclasse di livello, di compito ed elettivi nei quali si possano opportunamente differenziare per i diversi soggetti le strategie didattiche per le stesse attività o, se serve, anche cambiare attività. Oppure bisogna procedere all'insegnamento nel Gruppo classe, adoperando però per tutti o le strategie di apprendimento multisensoriali piuttosto che linguistico-astratte, o quelle, altissime, che aggirano la lettoscrittura.
Nell'uno e nell'altro caso, comunque, andare oltre la didattica del sintomo per assumere quella globale della persona, vuol dire assicurare a ogni allievo un rapporto individuale costruttivo, l'abitudine a prendere sul serio i suoi problemi, a provare comprensione e solidarietà, a creare un clima di fiducia e serenità, a non confondere mai il giudizio sui risultati di un lavoro con quello relativo alla persona che l'ha svolto. Inoltre, intervenire con tutti con opportune strategie metacognitive e di orientamento, ovvero aiutare ogni allievo a riflettere sulle modalità di apprendimento che preferisce, insegnargli le tecniche specifiche attraverso le quali può migliorare il suo apprendimento, guidarlo a comprendere le proprie capacità e ad impiegarle al meglio proprio per costruire un proprio progetto di azione che dia senso al suo lavoro scolastico, sostenere la sua autostima e irrobustire la sua sicurezza. L'apprendimento, infatti, non è soltanto una questione di abilità specifiche, ma riguarda sempre la totalità delle dimensioni umane.

Dal paradigma della parte al paradigma del tutto
Uno dei tratti caratteristici delle proposte della riforma è il richiamo continuo e sistematico al valore dell'olismo.
Si ricorda, infatti, anzitutto, che la persona è sempre un'unità. Unità di sé: motricità, psichicità e razionalità, mano, cuore e mente, dimensioni vegetative, sensitive e razionali non sono mai separabili; da sole, o scomposte, non esistono. Unità con gli altri: non esiste l'io senza il tu e il noi, né si può immaginare, se non astrattamente, l'uno senza gli altri. Unità con il mondo e con la cultura: l'unità di sé e con gli altri non esiste se non in un contesto, in un ambiente e in una cultura.
Si ricorda, in secondo luogo, che la cultura è sempre un'unità. È un prodotto umano. Non può che risultare lo specchio delle persone: un insieme totalità complessa di elementi diversi. Esistono, in essa, senza dubbio punti di vista e percorsi separati. Le scienze, l'arte, la storia, il mito, la tecnica lo dimostrano. Ma è impossibile pensare una di queste dimensioni senza le altre. Analogamente esistono tante scienze nella scienza. E tante arti nell'arte. E così via. Ma è impossibile pensare una scienza senza le altre, un arte senza le altre e così via; tantomeno arricchire la scienza con l'invenzione di un'altra scienza, l'arte di un'altra arte ecc. Il rimando continuo tra territori differenti, le incursioni in territori in apparenza disparati e le frequentazioni del confine sono una costante della cultura umana sia per mantenersi qual è, sia per allargarsi verso orizzonti ancora inesplorati.
La compartimentazione, intesa come una sua divisione in settori chiusi e autoreferenziali, non appartiene alla cultura.
Si ricorda, infine, che l'educazione è un'unità. Ad una persona unitaria non si può pensare di offrire, per crescere, una cultura parziale e separata, di cui non si colgono le connessioni ed i significati unitari. O un ambiente tra sé scomposto ed estraneo, dove l'alto non conosce il basso e si nega a nord ciò che si afferma a sud. Gli interventi educativi e didattici a servizio dello sviluppo della persona non si possono, quindi, immaginare improntati all'ottica della scomposizione e dell'estraneità. Attività programmate per sollecitare le capacità intellettuali, per esempio, non raggiungono l'obiettivo se non mobilitano anche quelle affettive, relazionali, espressive, morali, religiose, e viceversa; e se non sono di per se stesse impostate in maniera tale da coinvolgere anche queste altre dimensioni. Un'ora di matematica è anche sempre un'ora di socialità, di motricità, di espressività, di moralità ecc. Tenerne conto è dovere di ogni docente proprio per non tradire il valore della prospettiva unitaria, in educazione. Distinguere e individuare priorità in un tutto è sempre bene, ma, in esso, separare parti e agire per esclusivismi non porta mai buoni frutti. Sarebbe bizzarro, ad esempio, confondere la matematica con la musica o con la storia. L'approfondimento specifico è un valore irrinunciabile, da coltivare. Non cogliere e non far cogliere gli intrecci tra matematica, musica, arte, storia, lingua, mito ecc., tuttavia, significa, al fondo, nemmeno conoscere specialisticamente la matematica e, soprattutto, non renderla formativa.
I Documenti nazionali della riforma chiamano questa plurievocata dinamica: "ologrammatica". L'ologramma è una tecnica fotografica che per mezzo della luce laser permette di riprodurre immagini tridimensionali. La lastra olografica contiene in ogni sua parte una completa descrizione dell'oggetto riprodotto e consente vedere il tutto in ciascuna parte, sebbene con minore definizione. All'ologramma rimanda anche il fenomeno per cui ogni particella elementare è in realtà simile a un campo (magnetico, elettrico, gravitazionale, atomico) in cui ogni punto è in funzione di tutti gli altri e, in certo qual modo, un riflesso della totalità del campo.
Pensare una scuola ologrammatica, quindi, significa pensare ad una scuola nella quale non si procede per successione e giustapposizione di ore, attività, discipline, docenti, organizzazione, metodi tra loro irrelati, ma per un progressivo e coordinato sviluppo di apprendimenti nei quali la distinzione non perde mai il rimando all'unità della persona, della cultura e dell'educazione.
L'impostazione ologrammatica è costantemente richiamata nei Documenti nazionali. Come si vedrà meglio nella Parte III, essa ispira il Profilo educativo, culturale e professionale e le funzioni che gli sono state attribuite in rapporto alle Indicazioni nazionali e ai Piani di Studio Personalizzati.
Essa è ribadita anche nelle Indicazioni nazionali quando si precisa il ruolo e la funzione degli obiettivi specifici di apprendimento.
Casi paradigmatici di questa particolare sensibilità alla totalità e all'unità, tuttavia, sebbene a livelli diversi, si rintracciano nella concezione del rapporto tra discipline ed educazione alla Convivenza civile, dei Laboratori e delle Unità di Apprendimento.

L'educazione alla Convivenza civile. L'espressione Convivenza civile è ripresa dalla legge delega ed è assunta dalle Indicazioni Nazionali non solo come sintesi delle "educazioni" alla cittadinanza, ambientale, stradale, alla salute, alimentare, dell'affettività, che la costituiscono, ma anche come lo sbocco dell'apprendimento di ogni singola conoscenza ed abilità disciplinare, nel senso che un buon insegnamento della religione, dell'italiano, dell'inglese, della matematica, delle scienze ecc., in sostanza, produce, è chiamato a produrre, a livello personale, come condizione e fine, la Convivenza civile e che le conoscenze e le abilità specifiche dell'educazione alla Convivenza civile, se non vogliono indulgere all'astrattezza e alla sterilità, non nascono né esistono fuori da buone e corrette conoscenze ed abilità disciplinari.
L'educazione alla Convivenza civile diventa, così, un percorso formativo che, nella prospettiva di una modifica comportamentale e valoriale personale e sociale, coagula unitariamente tutte le attività didattiche di insegnamento promosse dalla scuola da due punti di vista complementari.
Dal primo punto di vista, perché riconduce ad un unico contenitore componenti dell'educazione alla Convivenza civile finora, per lo più, considerate dimensioni separate le une dalle altre, e introdotte nei piani di studio con modalità didattiche più additive che integrative. La riunificazione delle tradizionali "educazioni" alla cittadinanza, ambientale, stradale, alla salute, alimentare, all'affettività sotto la comune intitolazione di educazione alla Convivenza civile favorisce, invece, sia il processo di scoperta della loro unità organica a livello profondo, sia la necessità di una loro naturale integrazione anche a livello di svolgimento didattico.
La convivenza umana, infatti, sia essa declinata nelle relazioni interpersonali informali che si instaurano a due, in famiglia, nel gruppo di amici o nelle relazioni interpersonali più formali che intervengono nella vita della città, delle istituzioni sociali, della politica, della nazione ecc. è civile se e quando è basata su una comune condizione: la responsabilità personale dei soggetti in tutti i campi d'azione dell'azione umana, dai comportamenti pubblici a quelli privati, da quelli igienici a quelli alimentari, da quelli improntati al rispetto dell'ambiente a quelli che coinvolgono le relazioni affettive tra soggetti dello stesso o di diverso sesso.
In questa prospettiva, la Convivenza civile appare, allora, allo stesso tempo condizione e risultato delle 'educazioni' che la compongono, visto che tutte rimandano alla radice morale della persona e, allo stesso tempo, ne sono anche il frutto più maturo.
Sarebbe, quindi, incomprensibile un 'insegnamento' di queste dimensioni che non fosse intimamente integrato e sempre agganciato alla complessità dell'esperienza umana e sociale dei singoli allievi. Le narrazioni del modo con cui ciascuno vive ed interpreta le dimensioni e i significati della Convivenza civile diventano, in questo modo, il materiale formativo da cui far emergere una mappa articolata delle differenze e delle uguaglianze valoriali e comportamentali esistenti, a questo riguardo, nel gruppo classe e nella realtà scolastica e sociale; mappa che il docente è invitato poi a comparare contrastivamente con quella che si desume dalle conoscenze ed abilità di educazione alla Convivenza civile prescritte nelle Indicazioni allo scopo sia di aprire con gli allievi una lettura intersoggettiva allo stesso tempo più ampia e mai conclusa delle reciproche esperienze personali, sia di condividere criticamente, in libertà e responsabilità, significati, valori e comportamenti di vita che lo Stato reputa apprezzabili ai fini della stessa costituzione della cittadinanza.
L'educazione alla Convivenza civile, tuttavia, diventa un catalizzatore unitario di tutte le attività didattiche di insegnamento promosse dalla scuola anche da un altro punto di vista. Non solo, infatti, riunifica le "educazioni" che la contraddistinguono, ma intreccia ologrammaticamente queste "educazioni" con tutte le altre discipline di studio presenti nei Piani di Studio.
Qualsiasi competenza, infatti, come si ricordava, riguarda non solo e non tanto il sapere e il saper fare, ma anche e soprattutto l'essere della persona. In questo senso, visto che non è possibile a ciascuno di noi essere solo una parte di sé, perché si è sempre tutto se stessi anche quando ci si confronta solo con alcuni aspetti cognitivi è ragionevole sostenere che, studiando, in scienze, la differenza tra alimentarsi e nutrirsi o il fabbisogno idrico del corpo umano, oppure, in italiano i modelli culturali e il ruolo della pubblicità nella comunicazione o in storia le grandi epidemie che hanno afflitto il mondo occidentale fino alla modernità ecc., ovvero incontrando conoscenze ed abilità disciplinari, se esse diventano competenze, costituiscono un'occasione naturale per far crescere nella persona consapevolezze, comportamenti e responsabilità che conducono ad un approfondimento della qualità complessiva della Convivenza civile.
Gli obiettivi specifici di apprendimento delle diverse discipline, quando si concretizzano in competenze, cioè in atteggiamenti, comportamenti, giudizi, modi di vivere, trovano, quindi, nell'esercizio individuale e sociale dei valori della Convivenza civile la loro causa efficiente e la loro causa finale; causa efficiente perché senza l'esistenza di "buone pratiche" di Convivenza Civile non è possibile non solo la vita sociale, ma anche quella di un gruppo classe che apprende; causa finale perché tutte le attività educative e didattiche che si svolgono a scuola hanno come fine non soltanto l'apprendimento di conoscenze e di abilità, ma anche, e ancora di più, la maturazione di competenze personali. L'educazione alla Convivenza Civile, pertanto, lontana da qualsivoglia logica cumulativa, non fa altro che indicare la strada per arrivare all'espressione compiuta, qualitativa, dell'educazione integrale ed orientativa della persona.
Dunque, non si tratta di insegnare dieci o dodici materie a cui si aggiungono sei "educazioni", in una logica scompositiva e di specialismo autoreferenziale; occorre, invece, che tutte le attività educative e didattiche scolastiche mobilitino capacità e confluiscano in competenze personali che fanno complessivamente più "sagge" le persone nell'affrontare i problemi e i compiti quotidiani della cittadinanza, dell'ambiente, della circolazione stradale, della salute, delle pratiche alimentari, dell'affettività.
Domandarsi, per esempio, che cosa significhi, oggi, per ciascun ragazzo, "corretta alimentazione" non è "fare altro" rispetto alla realizzazione degli obiettivi formativi stabiliti per le varie discipline da ciascuna istituzione scolastica, proprio a partire dagli obiettivi specifici di apprendimento espressi nelle Indicazioni Nazionali di scienze, di scienze motorie, di italiano, ecc.; lavorando su l'alimentazione, i nutrienti, il fabbisogno idrico, la distinzione tra naturale e artificiale, i processi chimici e fisici della trasformazione dei cibi, i modelli culturali, la pubblicità, ecc. si utilizzano, infatti, conoscenze strettamente disciplinari e si esercitano abilità specifiche di molti campi disciplinari che, però, sboccando in competenze personali, non possono non incidere sui comportamenti e sulle responsabilità della Convivenza civile.
Analogamente, se i docenti, con una attenta programmazione disciplinare e interdisciplinare, rispondono a problemi e a compiti significativi per i ragazzi di educazione alla salute favoriscono la progressiva presa di coscienza da parte dei ragazzi che le discipline di studio che incontrano a scuola non sono indifferenti al problema della cura della propria e altrui salute, nel presente e nel futuro. Guidando i ragazzi in questo percorso, si tocca con mano, d'altra parte, quanto qualsiasi tema di educazione alla salute sia anche, allo stesso tempo, non solo un problema di Convivenza civile, ma anche di scienze, statistica, lingua, arte, musica, scienze motorie, tecnologia, informatica.

I Laboratori. Anche quando si parla di Laboratori e di pratica laboratoriale, di solito, si pensa a qualcosa di separato dalla ed aggiuntivo, se non di eccentrico, alla normale attività educativa e didattica scolastica.
Ci sarebbero le lezioni e le spiegazioni di classe: l'auditorium obbligatorio, la scuola dell'ascolto, dove il docente parla e gli studenti ascoltano; ad esse, poi, qualche volta, si accompagnerebbero i Laboratori e la pratica laboratoriale opzionali facoltativi, la scuola dell'operare, dove anche gli studenti, facendo, parlano, chiedono, propongono, interpellano, si compiacciono ecc.
Le lezioni e le spiegazioni obbligatorie riguarderebbero la teoria, l'astratto, il già consolidato.
I problemi che si affrontano durante le lezioni non sarebbero mai quelli della vita quotidiana, di cui nessuno, quando se li pone, proprio perché ancora 'problemi', sa già le risposte: le deve trovare.
Sono, invece, sempre, quelli interni alle discipline e alla loro semantica, di cui i docenti già conoscono le soluzioni: quiz, o rompicapo, per gli allievi, solo esercizi, magari noiosi perché ripetitivi, comunque "domande false", per i docenti. I Laboratori e le pratiche laboratoriali opzionali facoltative, come suggerisce lo stesso nome, riguarderebbero, al contrario, la pratica e il concreto. I problemi o i progetti o i compiti che affrontano potrebbero essere naturali e reali dei quali nessuno sa a priori la risposta compiuta: coinvolgono studenti e docenti in un comune percorso di ricerca. Il docente resta docente, ovviamente; è l'esperto, chi ha maggiori competenze, e, in questa sua veste, ha il dovere di essere modello ed esempio, per l'allievo, di nitidezza ed armonia nel percorso risolutivo dei problemi, realizzativo dei progetti o di svolgimento dei compiti.
Anche lui, però, cammina sul filo del problema da risolvere o del progetto da realizzare o del compito da eseguire senza rete di protezione. Partecipa, in modo diverso, ma partecipa, con i suoi allievi, ad una comunità di apprendimento di cui non è affatto spettatore esterno. Il tirocinio formativo che riserva all'allievo è molto di più, anche per lui, di un esercizio ripetitivo: è ogni volta la dimostrazione della sua creatività personale e competenza professionale.
Le lezioni e le spiegazioni obbligatorie sarebbero appannaggio delle discipline di serie A, quelle forti, dure, con una struttura epistemologica ben architettata e indiscussa che costringe ad una progressione didattica stringente che forza anche gli stati psicologici e motivazionali dell'allievo, con un prestigio sociale non controverso, di cui nessuno metterebbe in discussione l'utilità oggettiva e soggettiva anche se costano molta fatica. I Laboratori e le pratiche laboratoriali opzionali facoltativi, invece, sarebbero tipiche delle discipline poco formalizzate, di serie B, ancora epistemologicamente molli, perciò modellabili sulla base degli interessi e delle motivazioni dei ragazzi, con un prestigio sociale controverso, di cui tutti riconoscono l'utilità soggettiva in quanto occasione di espressività personale e, magari, di loisir , ma anche di cui molti sospettano la relativa fungibilità culturale.
Le lezioni e le spiegazioni obbligatorie, infine, evocherebbero il rigore e la sistematicità disciplinare; non confonderebbero i fili del discorso di ogni disciplina, diffiderebbero di ogni ordito interdisciplinare per la semplice ragione che, sul piano formale, non esiste pluri o interdisciplinarità possibile senza aver costruito, prima, disciplinarità. I Laboratori e le pratiche laboratoriali opzionali facoltative, invece, sarebbero più simili a gomitoli intrigati, a meticciamenti, si farebbe di tutto, un po' di una disciplina, un po' dell'altra, guidati più dalla contingenza e dalle passioni che dall'ordine delle strutture necessarie della ragione, per di più chiamando, spesso, queste disordinate frequentazioni con l'impegnativo vocabolo di "interdisciplinarità".
Il richiamo all'ologramma più volte ribadito nei Documenti nazionali della riforma porta, tuttavia, a respingere queste antinomie o queste separazioni.
La scelta è piuttosto quella di affermare che, nell'obbligatorio o nell'opzionale facoltativo, non c'è auditorium senza laboratorium, non esiste pensare teoretico senza fare tecnico e senza agire pratico, non c'è astratto senza concreto, non esiste esercizio che non abbia la possibilità di essere vissuto e pensato come problema, né discipline "forti" senza quelle "deboli" o "forti" che mostrino in sé tanti segmenti "deboli", né scienze taumaturgiche e autosufficienti che educhino qualcuno senza essere capite ed amate, né disciplinarità che sia pura e non abbia filtrazioni impure: e ovviamente non esiste neanche il reciproco di queste affermazioni.
Il Laboratorio e le pratiche laboratoriali di cui si parla nei Documenti nazionali, dunque, non sono un elemento separato, aggiuntivo e solo opzionale facoltativo delle attività educative e didattiche che si svolgono a scuola; sono le attività educative e didattiche ordinarie della scuola che possono essere obbligatorie o opzionali facoltative. I docenti di Laboratorio non sono altra cosa dai docenti, quasi fossero peggiori (o migliori, a secondo dei punti di vista). Sono semplicemente i docenti nell'organico di un'istituzione scolastica, chiamati a trasformare le capacità dei ragazzi in competenze personali, organizzando, coordinandosi, le conoscenze e le abilità elencate nelle Indicazioni nazionali in attività educative e didattiche unitarie differenziate per momenti, spazi, relazioni, modalità.
I Laboratori e le pratiche laboratoriali, dunque, sono un modo per rammentare l'unità della persona, della cultura e dell'educazione, e per imparare a scoprire in maniera cooperativa la complessità del reale, mai riducibile a qualche schematismo più o meno disciplinare; un momento significativo di relazione interpersonale e di collaborazione costruttiva tra pari e tra pari e docenti dinanzi a problemi da risolvere insieme, a progetti condivisi da realizzare e a compiti comuni da svolgere, avendo la competenza di utilizzare le conoscenze e le abilità che servono allo scopo e valorizzando l'intelligenza distribuita che ogni raggruppamento di ragazzi e di docenti porta con sé; un itinerario di lavoro euristico che, non separando programmaticamente teoria, tecnica e pratica, esperienza e riflessione logica su di essa, corporeo e mentale, emotivo e razionale, espressivo e razionale è paradigma di azione riflessiva e di ricerca integrata ed integrale; uno spazio di generatività e di creatività che si automotiva e che aumenta l'autostima mentre accresce ampiezza e spessore delle competenze di ciascuno, facendole interagire e confrontare con quelle degli altri; possibile camera positiva di compensazione di squilibri e di disarmonie educative; garanzia di itinerari formativi significativi per l'allievo, capaci di arricchire il suo orizzonte di senso, senza peraltro trascurare l'insegnamento delle conoscenze e delle abilità disciplinari dovute.
Può e deve essere Laboratorio, quindi, l'attività educativa e didattica che si promuove nel gruppo classe. L'importante è far lavorare tutti i ragazzi del gruppo classe, nessuno escluso, e trovare progetti, problemi, compiti, scenari narrativi, lezioni, spiegazioni che riescano a realizzare questo intento. Viceversa non sarebbe 'Laboratorio' per pochi o, purtroppo, per molti allievi.
Lavorare e imparare a lavorare in un gruppo grande qual è la classe, portando il proprio contributo, è, del resto, un importante traguardo cognitivo, affettivo e sociale da raggiungere. Non è facile. Il gruppo di allievi che costituisce una classe, infatti, non è un gruppo come gli altri; è stato costruito a tavolino, talvolta a caso, e coloro che ne fanno parte, oltre a provenire ciascuno dalla propria famiglia, hanno negli amici, fuori dalla scuola, il gruppo in cui si riconoscono (i pari) e in cui sono fortemente inseriti. Sebbene non si siano scelti, tuttavia, come capita nella vita, i membri del gruppo classe devono, comunque, non solo lavorare insieme e produrre risultati di apprendimento, in un "gomito a gomito" che si protrae per molte ore al giorno e per moltissimi giorni in un anno, anche quando al loro interno si scatenano conflitti, ma maturare, tutti, diventare, ciascuno, migliore, educandosi con gli altri. Non è proprio facile fare Laboratorio nel gruppo classe, sebbene sia necessario. Implica tanta sapienza professionale quanta fatica in termini di organizzazione e di attenzione. Servono tempi distesi, compiti di apprendimento davvero comuni e motivanti, routine relazionali che non si improvvisano, un'organizzazione coerente, prestigio e affidabilità personale del docente. Ma è poi quello che i bravi docenti hanno sempre fatto. Data la difficoltà dell'impresa servono anche interventi personalizzati di "contenimento" delle ansie e dei conflitti, di "sostegno" delle motivazioni, di "chiarificazione" degli obiettivi per i ragazzi e per le famiglie. Non a caso la riforma ha introdotto la figura del docente tutor. Tutto per favorire la 'laboratorialità' del gruppo classe.
È nondimeno Laboratorio, tuttavia, forse solo un po' più facile, l'attività educativa e didattica unitaria che si promuove ordinariamente in gruppi di classe/interclasse di livello, di compito ed elettivi. Forse un po' più facile perché qui la composizione dei gruppi non è più casuale o formale, condotta sulle carte, ma basata sulle conoscenze dirette e personali che i docenti acquisiscono nel gruppo classe; inoltre, si può sempre modificare in base alle situazioni e alle necessità. Tanto più che ogni adattamento in questa direzione può diventare un'occasione di dialogo e di crescita con allievi e famiglie. Forse un po' più facile, inoltre, perché insegnare le stesse cose a tante persone con preparazione, sensibilità, motivazioni, aspettative talvolta molto differenti è più complesso che insegnarle a persone riunite (a poche o tante che siano) per preparazione, sensibilità, motivazioni, aspettative abbastanza simili.

Le Unità di Apprendimento. Un altro esempio di impostazione ologrammatica è dato dal modo con cui i Documenti nazionali della riforma illustrano le Unità di Apprendimento. Si vedrà più avanti la loro struttura operativa e le loro funzioni. Qui ci si sofferma soltanto sulla matrice culturale e sul significato pedagogico che le ispira: quello di rispecchiare la complessità circolare esistente tra unità della persona, unità della cultura e unità dell'educazione.
La prima osservazione che emerge a questo proposito è che le UA sono, appunto, di apprendimento, non di insegnamento. La loro centratura, quindi, non è sui contenuti disciplinari e sul modo logico con cui esso sono presentati dal docente, ma sul modo con cui questi contenuti suscitano apprendimento personale e, di conseguenza, poi competenza. Non si tratta, quindi, di limitarsi a distribuire in modo organico la struttura che contraddistingue un argomento o una serie di argomenti disciplinari. Interessarsi dell'asse dell'istruzione in senso stretto. Si tratta, al contrario, di interrogarsi sulla combinazione tra struttura logica ed epistemologica della disciplina, struttura cognitiva delle persone che compongono il gruppo classe o i gruppi di classe/interclasse di livello, di compito ed elettivi, orizzonte di significati all'interno dei quali le stesse persone inseriscono l'una e l'altra, influenza che il contesto logistico-organizzativo e relazionale manifesta nei confronti dei precedenti elementi e che questi determinano a loro volta nei confronti di tali contesti e, infine, risultati in termini di competenze che questo processo riesce a determinare. L'asse dell'istruzione, insomma, deve combinarsi con l'asse della formazione della persona per considerare i risultati che si acquisiscono, infine, in termini di educazione globale ed armonica dei singoli soggetti.
La seconda osservazione riguarda i due significati del concetto di apprendimento, tra loro complementari, che l'UA è chiamata ad integrare e a rendere complementari. Infatti, è tramite l'esperienza di apprendimento che l'alunno trasforma le proprie capacità in competenze personali; ma è sempre tramite quest'esperienza che acquisisce le conoscenze e le abilità. Perciò, l'apprendimento a cui si riferiscono le UA è sia l'apprendimento come trasformazione di sé (asse dell'essere personale, dei processi soggettivi, delle condotte morali, degli atteggiamenti, delle emozioni, dell'identità, dei significati) e l'apprendimento come acquisizione di qualcosa (asse dell'avere, dell'oggetto culturale e delle prestazioni osservabili e misurabili), dove è evidente, però, che il secondo, cioè l'acquisizione di conoscenze ed abilità non possedute dall'allievo, ma ritenute importanti per tutti dalla comunità nazionale (Indicazioni nazionali), è funzionale al primo.
L'apprendimento a cui mira l'UA è, perciò, sintesi di istruzione ed educazione, che si confronta con l'intero della persona oltre che della cultura; è quello che dura perché assimila e personalizza il mondo e la cultura, traducendoli in competenze personali che restano patrimonio di ciascuno, non sottoposto alla tradizionale obsolescenza e deperibilità dei contenuti. Si potrebbe dire che l'apprendimento a cui si riferiscono le UA non è la sommatoria di conoscenze e abilità imparate, ma l'apprendimento formativo: quello che parte da un intero significativo (il compito unitario di apprendimento) e si conclude in un intero ancora più significativo (la persona che cresce, al cui interno le conoscenze e abilità si cementano perché si innestano sulle capacità e sboccano nelle competenze personali). Non è sufficiente che le conoscenze e le abilità siano acquisite e imparate dall'alunno, occorre anche che siano assimilate e personalizzate, cioè digerite e metabolizzate dall'intero tessuto delle sue capacità personali. Le conoscenze e abilità, se solo imparate e se collocate solo in un settore delle capacità di ciascuno, infatti, restano conoscenze e abilità spesso estranee alla persona, come un nutrimento indigesto; se assimilate e personalizzate, invece, si trasformano in strumenti che migliorano nell'insieme la vita di ciascuno, in competenze personali appunto. Naturalmente, perché non si pensi ad una misteriosa transustanziazione, si dovrà mostrare come ciò possa avvenire e come lo si possa accertare.
La terza osservazione riguarda proprio il primo vocabolo dell'endiadi: "unità". Per un primo aspetto, ciò significa che, a qualunque livello si collochi, il contenuto dell'UA è e deve essere sempre presentato non solo come una parte, ma anche, sempre, come un tutto. È naturale che un'UA dedicata a rispondere alla domanda "perché piove a gocce, non a scrosci", oppure "perché il cielo è azzurro" solleciti il coinvolgimento esplicito di più scienze (umanistiche, scientifiche, tecniche). Non è un contenuto che possa restare confinato in una parte sola della cultura: la evoca in maniera plurale ed olistica. Anche se fosse un problema squisitamente monodisciplinare, tuttavia, è all'interno stesso di esso che bisogna comunque far scoprire la dinamica parte/tutto. Tanto più che ogni parte, in quanto tale, non solo è la parte di un organico tutto disciplinare che la precede e la segue, come condizione e come sviluppo, ma è anche, sempre, un'unità in quanto parte.
Per un secondo aspetto, l'enfasi sul primo termine dell'endiadi significa che siamo dinanzi ad una precisa indicazione metodologica da rispettare. L'UA, in altri termini, non si può costruire in maniera indefinita, indeterminata e ondivaga, senza un qualche alveo che la contenga e la indirizzi; l'UA deve essere qualcosa di circoscritto, di separato da uno sfondo, come una forma chiusa rispetto allo spazio circostante. Questa unità, tuttavia, proprio per il primo significato attribuito a questo termine e per quelli attribuiti al termine 'apprendimento', deve essere non solo organica ed effettiva sul piano dell'insegnamento, ma anche su quello dell'apprendimento. Per realizzare a pieno sia la propria funzione formativa, consistente nel trasformare le capacità in competenze, sia la propria funzione didattica, che consiste nel promuovere la prima attraverso l'acquisizione di conoscenze e abilità, le UA devono, quindi, confrontarsi non con apprendimenti qualsiasi, ma apprendimenti che siano, per ciascuno, unitari, articolati, organici, adatti e significativi. La delimitazione di campo, la forma chiusa, si può ottenere, come vedremo, enunciando uno o più obiettivi formativi (OF) integrati, capaci, singolarmente o nel loro complesso, di individuare un compito di apprendimento unitario. Il fatto che si insista fortemente sul carattere unitario delle UA non deve, però, indurre a credere che si tratti di un'unità vuota e inarticolata: se per avviare il lavoro con una UA basta la delimitazione di campo operata mediante l'enunciazione di uno o più obiettivi formativi, sarà poi compito del lavoro concreto del docente e dell'équipe dei docenti articolare e polarizzare l'apprendimento unitario nelle conoscenze e abilità che costituiscono le sue parti. Il fatto che le UA siano centrate sull'apprendimento e che l'apprendimento, di contro all'uniformità dell'insegnamento, sia qualcosa di profondamente personale, pone, infatti, fin dall'inizio il cruciale problema di far convivere dentro l'UA le esigenze dell'unità con la molteplicità dei bisogni e dei percorsi di apprendimento. Se la centratura sull'insegnamento postula, in linea di principio, l'omologazione dei percorsi, la centratura sull'apprendimento postula, sempre in linea di principio, una diversificazione, che sia comunque sostenibile sotto il profilo organizzativo. Se l'UA deve essere occasione di apprendimento unitario, come si pone e si risolve il problema della personalizzazione all'interno di una UA? Ciò che rende possibile la convivenza tra le esigenze dell'unità e la molteplicità dei bisogni è il fatto che le UA si fondano su un intero di apprendimento articolato al suo interno: l'OF unitario può essere prospettato come compito di apprendimento identico per tutti; ciò che deve essere personalizzato è l'acquisizione delle conoscenze e delle abilità disciplinari o interdisciplinari strumentali alla realizzazione dell'intero, visto che non si può presupporre che tutti i ragazzi possiedano (o non possiedano) e si impadroniscano (o non si impadroniscano) allo stesso modo e allo stesso grado delle conoscenze e delle abilità che servono. Il compito unitario di apprendimento, perciò, rappresenta la bussola per ogni decisione relativa alle curvature personalizzate, perché ci orienta nel decidere ciò che occorre esigere e ciò su cui si può transigere. Se si smarrisce questa bussola la personalizzazione avviene a caso e la stessa unità del compito di apprendimento svanisce.

Dalla valutazione come fine alle valutazioni come mezzo
Secondo una lettura che non è mancata negli ultimi trent'anni tutto ciò che, in educazione, è personalizzato risulterebbe incompatibile con qualsiasi discorso sulla valutazione. Tanto più se impostata in maniera sistematica. Si rischierebbe, infatti, così dicono i sostenitori di questa preoccupazione, di reintrodurre sensibilità e pratiche efficientistiche che, con le loro istanze comparativamente quantitative, mal si concilierebbero con l'intenzione di chiedere a ciascuno nulla di più di quanto può dare, sebbene al massimo livello possibile. Si finirebbe per adattare le persone agli obiettivi, piuttosto che il contrario.
Le Indicazioni Nazionali per i Piani di Studio Personalizzati, tuttavia, sembrano addirittura moltiplicare i momenti e le pratiche della valutazione. Attribuiscono, infatti, un ruolo notevole alla valutazione interna ed esterna alla scuola, e, dentro la prima e la seconda, sia alla valutazione di sistema sia alla valutazione degli apprendimenti. Non si parla più di "valutazione", ma addirittura di "valutazioni". Significa, dunque, che smentiscono il carattere 'personalizzato' dei Piani di Studio che sostengono, fin dal titolo, di voler far costruire alle scuole e ai docenti? Significa, perciò, che sono soltanto un alibi per recuperare gli apprendimenti con le antiche armi della selezione e dell'adattamento delle persone degli allievi ad astratti, e non personalizzati, modelli di rendimento?
Significa che, dopo aver esaltato le componenti qualitative formative dell'educazione, cioè strumentali alla crescita di ciascuno, le riducono a quelle quantitative sommative, considerate il fine dell'attività educativa e didattica?
Gli interrogativi sono legittimi, ma, ad una attenta ricognizione dei Documenti nazionali, non si trovano argomenti per una risposta affermativa. Si può dire, invece, che siamo dinanzi ad un quadro che, consapevole della complessità della questione e dell'irriducibilità dell'educazione in quanto tale anche alle forme più sofisticate ed esaustive di valutazione, tenta di non indulgere a semplificazioni e di coniugare, nel modo professionalmente più responsabile possibile, qualità e quantità, esigenze generali a cui deve rispondere il sistema di istruzione e di formazione e rispetto delle esigenze di ciascuno, efficacia sociale degli interventi della scuola in quanto istituzione e maturazione educativa personalizzata dei singoli. E lo fa, sul dettato dell'art. 3, co. 1 della legge n. 53/03, cercando di rendere complementari ed integrate la valutazione interna alla scuola e quella esterna ad essa, e, dentro queste due classificazioni, la valutazione di sistema svolta per scopi e con mezzi diversi sia a livello di istituto (autovalutazione d'istituto) sia a livello nazionale e la valutazione degli apprendimenti dei ragazzi anch'essa condotta per scopi e con mezzi diversi sia all'interno dell'istituto da parte dei docenti, sia all'esterno ad esso da parte dei tecnici dell'Invalsi.
Il tutto per i seguenti scopi:
- ribadire che la valutazione, nelle sue varie forme, se intende rimanere educativa, è un processo, non uno stato; un percorso, non un traguardo; un passaggio, non un luogo; in questo senso, non è un momento autonomo e separato dal processo educativo, quasi dovesse svolgersi quando esso è concluso, magari per condannarlo od assolverlo, ma è una modalità costante del suo svolgersi;
- creare le condizioni affinché ogni persona diventi sempre più competente nel giudicare il valore di un oggetto culturale, di stimare un contenuto, un programma, i risultati propri e altrui, un'organizzazione di qualità, le relazioni interpersonali;
- dimostrare che ogni processo di autoregolazione valutativa interna alle persone e alle istituzioni in tanto può costituirsi in quanto si confronta anche con i vincoli di una regolazione valutativa esterna, e viceversa;
- ricondurre le diverse forme di valutazione attivate ai principi costituzionali di sussidiarietà, di equità, di solidarietà e di responsabilità perché ogni valutazione, qualunque sia la sua specificazione (di sistema, della scuola, degli apprendimenti degli studenti in termini di conoscenze/abilità, degli apprendimenti degli studenti in termini di competenze, degli standard di prestazione del servizio dei docenti ecc.) è chiamata sempre: a) a trasformarsi in autovalutazione (del sistema, della scuola, della persona dello studente, della famiglia, dei docenti ecc.); b) a non considerare i soggetti personali (gli studenti) o giuridici (le istituzioni scolastiche, il sistema educativo nazionale di istruzione e di formazione) su cui si esercita semplici destinatari di un esame o di informazioni valutative prodotte da altri, ma protagonisti attivi e coinvolti in prima persona nell'esame stesso o nell'elaborazione e dell'uso delle seconde; c) a utilizzare i dati disponibili non fini a se stessi, ma come occasioni per sollecitare la crescita della responsabilità personale e sociale di tutti gli attori coinvolti nei processi interni ed esterni di valutazione e per aumentare le loro pratiche di giustizia e di solidarietà.
La valutazione interna. La valutazione interna prevista nell'ambito della riforma si articola in autovalutazione di istituto, riguardante la funzionalità degli elementi di sistema (efficacia della progettazione didattica, rispetto degli standard di prestazione del servizio, grado di soddisfazione e di coinvolgimento delle famiglie e del territorio, progetti speciali e di ampliamento dell'offerta formativa ecc.) e in "valutazione, periodica e annuale, degli apprendimenti e del comportamento degli studenti" rilevata ai fini della "certificazione delle competenze acquisite".
L'autovalutazione di istituto compete agli organi collegiali previsti dalla legge e al dirigente scolastico; si potrà certamente avvalere dei suggerimenti, degli strumenti e degli esami messi a disposizione da enti di supporto e ricerca istituzionali sulla valutazione di istituto (Invalsi, università, Irre, enti scientifici privati), oltre che dei risultati della valutazione esterna, ma la responsabilità dell'uso delle informazioni e delle scelte da adottare per la risoluzione dei punti critici individuati è degli organi dell'istituzione scolastica.
La "valutazione, periodica e annuale, degli apprendimenti e del comportamento degli studenti" rilevata ai fini della "certificazione delle competenze acquisite" è compito riservato ai docenti dei gruppi classe o dei gruppi di classe/interclasse di livello, di compito ed elettivi. Questo tipo di valutazione, con le sue componenti di valutazione diagnostica, sommativa, formativa e autoconsapevolizzante o formante, si trova documentata nel Portfolio delle competenze personali che accompagna l'allievo dall'inizio della sua avventura scolastica nella Scuola dell'infanzia fino alla conclusione degli studi, quando si trasformerà nel Portfolio delle competenze personali da impiegare ai fini dell'educazione permanente e ricorrente, nonché delle politiche attive del mercato del lavoro (ricerca dei posti di lavoro, riconversioni professionali ecc.).
Autovalutazione di istituto e "valutazione, periodica e annuale, degli apprendimenti e del comportamento degli studenti" rilevata ai fini della "certificazione delle competenze acquisite" sono due adempimenti che non si improvvisano. Hanno bisogno di rigore scientifico e di professionalità. Per questo, va promossa, per i docenti e per le scuole, una struttura nazionale di sostegno e consulenza appositamente costituita presso l'Invalsi.
Il fatto di aver distinto tra autovalutazione di istituto e "valutazione, periodica e annuale, degli apprendimenti e del comportamento degli studenti" rilevata ai fini della "certificazione delle competenze acquisite", se è indispensabile sul piano del merito, degli oggetti e degli scopi, può, tuttavia, fuorviare su quello operativo. Su questo secondo versante, infatti, la valutazione interna non può pensare tra loro irrelate la prima, quella di sistema, e la seconda, quella degli apprendimenti. Essa, al contrario, deve pensarsi e declinarsi in maniera integrata e olistica. Tanto più che le due tipologie di valutazione che contiene hanno in comune lo stesso modo di costituirsi e di procedere.
L'autovalutazione di istituto, infatti, ha una fase "iniziale" (diagnostica) nella quale si considerano tutti gli aspetti organizzativi e strutturali esistenti (contesto, risorse, dati statistici, progetti ecc.) che permettono l'identificazione dei problemi da risolvere; una fase "intermedia" periodica, che è di regolazione e controllo dei processi attivati (formativa); una fase "finale" di registrazione degli effetti e dei risultati ottenuti (sommativa) e una fase in cui gli attori, prendendo coscienza di tutto il processo che li coinvolge, sono nelle condizioni di creare "l'organizzazione che apprende" per migliorarsi, migliorando la funzionalità del sistema (autoconsapevolizzante o formante). Le fasi, ovviamente, non sono mai cronologiche e lineari, ma, obbedendo anch'esse al principio ologrammatico, si richiamano e si susseguono sempre l'una nell'altra.
Con gli opportuni adattamenti, si può dire che una scansione analoga, con strumenti, scopi e condizioni diverse, si ritrovi anche nella "valutazione, periodica e annuale, degli apprendimenti e del comportamento degli studenti" rilevata ai fini della "certificazione delle competenze acquisite".
L'azione della valutazione degli insegnanti, d'altra parte, sebbene svolta sul singolo studente, e quindi molto diversa da quella oggetto dell'autovalutazione di istituto, non può che essere sempre relazionata sia a quella della classe in generale, sia a quella dell'istituto. Nello stesso tempo, l'azione valutativa del singolo insegnante deve essere collegata non solo con quella degli altri docenti del gruppo classe, ma anche con quelli dell'istituto nel suo insieme (collegio dei docenti).
Tutti gli insegnanti, perciò, in questa prospettiva, sono stimolati a condividere "metodiche" e "pratiche" comuni, anche se poi ciascuno avrà il dovere delle differenze specifiche.
L'uso di metodiche comuni permette una percezione di "invariabilità" dei giudizi degli insegnanti da parte degli studenti e delle famiglie e nello stesso tempo permette una migliore confrontabilità dei risultati sia a livello di gruppo classe, sia a livello di scuola.
Un aspetto importante da sottolineare ai fini della valutazione interna degli apprendimenti è il recupero del peso, anche simbolico, disposto, in questo contesto, della "condotta".
La circostanza rammenta l'unità inscindibile di logica ed etica, nel senso che non esiste conoscenza ed abilità umana possibile che non implichi sempre, allo stesso tempo, una responsabilità morale, un giudizio, un impegno, un coinvolgimento e un comportamento personale; e viceversa. Pensare, fare e agire si intrecciano sempre. Distinguere, dunque, tra istruzione ed educazione, tra conoscenze e valori, tra abilità tecniche e pratiche morali può essere un buon esercizio di logica analitica e scompositiva, ma non attiene alla realtà delle vicende umane.
Questa decisione introdotta dalla norma, inoltre, sembra invitare docenti, studenti, genitori, attori sociali a vario titolo coinvolti nel processo educativo a riflettere sul ruolo dell'autorità e della libertà nella crescita educativa e nei rapporti interpersonali. Consapevole che l'autorità non è autoritarismo e che la libertà non è permissivismo, la scuola dell'autonomia, infatti, quella che si dà regole da sola e in base alle quali agisce, non può fare a meno di confrontarsi con questa antinomia e, soprattutto, non può non tentare di ricomporla, giorno dopo giorno, in qualsiasi situazione.
Assumersi questa responsabilità significa essere consapevoli dei rischi e delle contraddizioni che la possono accompagnare, ma significa anche essere convinti che eluderla può condurre a degenerazioni che compromettono l'apprendimento e la qualità educativa delle relazioni interpersonali. Il solo fatto di assumere questa responsabilità, e di renderne conto, è già un modo per tentare di comporla in modo positivo.
La valutazione esterna. La valutazione esterna non ha lo scopo di esprimere giudizi valutativi sui singoli, siano essi allievi od operatori delle istituzioni scolastiche. Essa si propone, invece, di raccogliere elementi per informare il Paese, i decisori politici, le famiglie, le istituzioni scolastiche stesse dello stato complessivo del sistema e anche, in generale, dei risultati ottenuti nelle prove di conoscenza e di abilità espletate dagli allievi, nonché dell'evoluzione dell'uno (stato del sistema) e degli altri (risultati di apprendimento) nel tempo (stratificazione diacronica dei dati).
Ciò per offrire elementi utili a programmare in maniera sempre più consapevole, da un lato, le politiche educative e, dall'altro, per favorire valutazioni interne, di scuola, riguardante i singoli allievi o valutazioni riguardanti la funzionalità della istituzione scolastica in generale, che non siano meramente autoreferenziali.
Anche la valutazione esterna si orienta sulla valutazione di sistema, riguardante gli aspetti istituzionali, organizzativi e strutturali del sistema educativo nazionale di istruzione e di formazione, e sulla valutazione degli apprendimenti degli allievi.
All'inizio del secondo e del quarto anno della scuola primaria, del primo anno e del terzo anno della scuola secondaria di I grado, del primo e del terzo anno della scuola secondaria di II grado, infatti, l'Invalsi procede alla valutazione esterna, riferita sia agli elementi strutturali di sistema, sia ai livelli di padronanza mostrati dagli allievi nelle conoscenze e nelle abilità raccolte negli obiettivi specifici di apprendimento indicati per la fine dei periodi didattici precedenti.
Nell'uno e nell'altro caso, serve riflettere sulle differenze esistenti tra i livelli e gli standard costruiti a livello nazionale e quelli repertati a livello di istituzione scolastica. Tale riflessione, da estendere non solo alle dimensioni di risultato, ma anche a quelle del metodo e del processo con cui i risultati in questione sono stati acquisiti, aumenta la 'cultura della valutazione e dell'autovalutazione' dei docenti e consente di migliorare la funzionalità e l'affidabilità delle indagini nazionali e locali sul sistema e sugli apprendimenti.
Per condurre la valutazione esterna, l'Invalsi si dovrà coordinare con il sistema informativo del Ministero e con tutti gli enti che chiedono dati alle scuole (per primi gli enti territoriali) perché queste ultime, da un lato, siano chiamate a rispondere una sola volta alle interrogazioni al fine di ridurre il fastidioso fenomeno della molestia statistica (per es. su dropout, professione dei genitori, ripetenza ecc.) e, dall'altro, siano anche poste nella condizione di vedersi restituiti dati trattati e non bruti. In questa maniera, si può anche guidare la 'cultura della valutazione e dell'autovalutazione' nazionale e locale a concentrarsi sui punti critici da esaminare e da risolvere in via prioritaria. La restituzione critica dei dati va condotta non soltanto a livello di scuola, ma anche a livello di regione, di provincia e di comune, con appositi software di traduzione.
Va, inoltre, creata un'opportuna banca dati statistica sull'allocazione delle risorse tra le diverse aree del paese, in analogia a ciò che accade per il sistema universitario. È necessario produrre, in questo senso, indicatori tesi ad evidenziare l'eventuale squilibrio territoriale, a livello di piccola area, anche in rapporto ai parametri europei di riferimento per i diversi gradi di istruzione, ai fini di garantire l'equità dell'accesso.
A fini di accountability è importante verificare anche la creazione di indicatori di "valore aggiunto". La loro costruzione richiede che si possa mettere in relazione la valutazione conseguita ad un determinato stadio del percorso formativo, con quella ottenuta nei livelli formativi precedenti.
Da ciò consegue la necessità di costruire "sistemi di monitoraggio strutturati del servizio formativo", il cui elemento portante è costituito dall'anagrafe individuale degli studenti, contenente poche ed essenziali informazioni sulle scuole e sezioni frequentate nel corso degli anni e sui risultati ottenuti nelle valutazioni interne, in quelle basate sui test e negli esami di stato. Sarà altresì opportuno raccogliere - nella fase di iscrizione al primo anno della scuola primaria - quelle informazioni sullo stato socio-economico della famiglia dello studente, tali da inficiare, se non considerati, la corretta misura del valore aggiunto.
La valutazione esterna degli apprendimenti prevede azioni sia universali sia campionarie.
Le azioni universali si dividono a loro volta su due settori: quello delle valutazioni ad inizio bienni didattici e quello riguardante la prova nazionale degli esami di stato della terza secondaria di I grado e dell'ultimo anno della secondaria di II grado. Inutile sottolineare la diversità di scopo, formativa nel primo caso e sommativa nel secondo, e quindi anche le diversità tipologiche delle prove che le devono caratterizzare. Viceversa sarebbe difficile prevedere che le prove d'esame finale contribuiscano, per una quota che sarà stabilita dai regolamenti attuativi, alla determinazione del voto finale.
Accanto alle prove universali vanno, però, messe in conto anche prove più complesse (questionari risposta aperta, saggi brevi, prove scritte ecc.) che, però, non riguardino tutta la popolazione scolastica, ma un campione di essa, scelto ogni anno secondo criteri di rotazione che possono portare nell'arco di un certo periodo di anni a coprire le scuole dell'intero territorio e, insieme, a sperimentare la ricchezza degli strumenti di indagine resi disponibili dalla ricerca scientifica. Più il campione sarà ristretto e più si potranno rendere raffinate le metodologie di rilevamento, di indagine e, soprattutto, di correzione. Ciò permette un carotaggio sempre molto significativo, che può aiutare la messa a punto della valutazione di sistema, delle prove multiple degli esami di stato, della valutazione degli apprendimenti interna e di quella universale esterna.

Valutazione interna ed esterna degli apprendimenti. Ciò che accomuna la valutazione esterna ed interna degli apprendimenti è l'accertamento delle conoscenze e abilità e dei relativi livelli e standard di prestazione. Pur avendo in comune questo accertamento, tuttavia, per la valutazione esterna degli apprendimenti le conoscenze e le abilità stabilite nelle Indicazioni nazionali sono il dato primario; per le scuole, la misurazione di tali conoscenze e abilità, è un dato secondario e strumentale. Si devono mettere in campo, infatti, quelle conoscenze e abilità che sono funzionali a produrre una data competenza; la logica non è più quella di 'esaurire' un argomento disciplinare. Può succedere di conseguenza che all'interno di scuole diverse ci siano accentuazioni diverse quanto al peso da assegnare a certe conoscenze e abilità. Se il 'prodotto' finale e vero della scuola sono e devono essere le competenze personali, sembra logico pensare che la qualità delle istituzioni scolastiche e formative si debba valutare sulle competenze personali, non su ciò che serve alla loro produzione. La valutazione esterna degli apprendimenti, quindi, potrà aiutare la valutazione interna di essi ad approfondire sempre più l'accountability delle scuole a questo riguardo, ma non potrà certo pretendere né di esaurire il problema della valutazione, né di poter contare, ai fini dell'identificazione della qualità educativa, più della valutazione interna che, con il Portfolio, sonda non solo le conoscenze e le abilità acquisite, ma soprattutto come, quando e a che livello sono diventate competenze personali degli allievi.
Da questa prima differenza ne discende una seconda, che riguarda l'oggetto del valutare.
Dire che l'oggetto della valutazione degli apprendimenti esterna ed interna è costituito dai livelli e standard di apprendimento è troppo generico. Bisogna precisare se si tratta di apprendimenti relativi alle conoscenze e abilità o alle competenze personali. La valutazione esterna degli apprendimenti, per ragioni strutturali, non può avere alcuna presa sulle competenze personali, che restano e resteranno fuori dal suo raggio di azione; si interessa per principio del nomotetico, non dell'idiografico; non ha a disposizione strumenti storici, ermeneutici e narrativi che sembrano indispensabili quando si desidera certificare una competenza; di solito, non può che usare strumentazioni quantitative e docimologiche; di conseguenza non può far altro che dedicare tutte le sue attenzioni alle conoscenze e abilità. La valutazione interna, di scuola, degli apprendimenti, al contrario, perché così è richiesto dal DPR 275/99 e dalla legge delega n. 53/03, art. 3, deve centrare le proprie pratiche valutative proprio sulle competenze personali, considerando gli accertamenti relativi alle conoscenze e abilità solo come strumentali a questo risultato educativo personale. Così, ciò che per la scuola è il mezzo, per la valutazione esterna degli apprendimenti è il fine; e ciò che è il fine per la scuola risulta fuori portata per la valutazione esterna degli apprendimenti.
Dalla diversità di oggetto delle valutazione consegue poi una terza differenza tra valutazione degli apprendimenti esterna e interna, questa volta relativa alle procedure ed agli strumenti di accertamento. La valutazione degli apprendimenti esterna, coerentemente con il proprio obiettivo istituzionale, è costretta ad abbracciare la metodologia e le pratiche del paradigma quantitativo e docimologico, le uniche, del resto, in grado di garantire dati trattabili statisticamente con procedure informatiche. La valutazione degli apprendimenti interna, di scuola, mettendo, invece, al centro delle proprie preoccupazioni il problema dell'accertamento e della certificazione delle competenze personali, è obbligata ad adottare un paradigma che inserisce quello precedente in una prospettiva più multifattoriale e complessa che tenta di cogliere, con metodologie osservative, ermeneutiche, narrative ed empatico-relazionali anche aspetti e sfumature irriducibili ad elementi numerici. Certo, anch'essa dovrà sempre accertare le conoscenze e le abilità implicate nelle competenze personali, con metodologie non molto diverse da quelle adottate dalla valutazione esterna degli apprendimenti, ma lo deve fare, appunto, in funzione subordinata e secondaria alle competenze personali.
Naturalmente cambia anche il concetto di livello e standard di apprendimento, che non si determina allo stesso modo, se riferito alle conoscenze e abilità o alle competenze personali. Nel primo caso, stabilito un coefficiente di difficoltà della prova, il metro o standard ideale è dato dalla prestazione corretta rispetto a quella prova (p.e. se la prova è di 20 quesiti lo standard ideale = 20 quesiti corretti), il livello di apprendimento è rappresentato dallo scostamento rispetto a questo standard. A partire da questo dato primario, attraverso una serie di mediazioni statistiche, si arriva ai livelli di apprendimento e standard nazionali. Nel caso della competenza personale, invece, è già problematico anche il solo parlare di standard e livelli di apprendimento. Si potrà magari parlare più opportunamente di qualità della competenza, tenendo conto di tutti i fattori strutturali che intervengono a determinarla: soluzione del compito socialmente riconosciuta, adeguatezza alla situazione, presenza significativa del fattore personale che si spinge fino alla creatività, utilizzazione funzionale allo scopo immediato delle conoscenze e abilità apprese, adozione originale di strategie conoscitive ed operative già collaudate. In un caso, gli standard e i livelli sono riferiti a parcellizzazioni di processi complessi, nel secondo caso intendono cogliere l'intero; in un caso standard e livelli sono quantificabili con un indice numerico, nel secondo caso non sono quantificabili, ma qualificabili.

3. Il contesto organizzativo

Il sistema educativo nazionale di istruzione e di formazione disegnato dalla costituzione e dalla legge n. 53/03 riconosce un ruolo centrale all'autonomia delle 11.000 istituzioni scolastiche statali e 14.000 scuole pubbliche non statali. Ad esse, la costituzione e la legge n. 53/03 chiedono di "organizzare", cioè di creare ordine ed armonia nel sistema e tra il sistema e l'ambiente circostante, da un lato, rispettando i vincoli di funzionamento posti a livello nazionale dallo Stato e a livello territoriale dagli enti territoriali e, dall'altro, rispondendo alle specifiche esigenze educative degli allievi, delle famiglie e del territorio.
I vincoli posti a livello nazionale si ricavano dai decreti attuativi della legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3 e dalla legge n. 53/03 (tra cui i Documenti nazionali elaborati dal Ministero che li accompagnano: il Pecup e le Indicazioni nazionali per i Piani di Studio Personalizzati).
La competenza delle istituzioni scolastiche nel combinare vincoli nazionali e specifiche esigenze educative degli allievi, delle famiglie e del territorio si ricava dai Documenti interni che esse sono tenute ad elaborare e a conservare: il Pof, i Piani di Studio Personalizzati e il Portfolio delle competenze personali.
Questi Documenti esplicitano anche l'identità educativa e culturale di ogni istituzione scolastica in base alla quale le famiglie esercitano "la libertà di scelta educativa" loro riconosciuta dall'art. 21 della legge n. 58/97.

Ruolo e contenuti dei Documenti nazionali
Il Profilo educativo, culturale e professionale
. Il Profilo educativo, culturale e professionale, emanato dal Ministero dell'Istruzione, è un documento esterno alla scuola nel quale si rappresenta ciò che un allievo dovrebbe sapere e fare per essere l'uomo e il cittadino che la comunità nazionale si attende da lui, entro la fine del primo ciclo.
La sua attenzione è rivolta alla persona dell'allievo: ad un "chi". Il carattere strumentale delle conoscenze e delle abilità rispetto alla maturazione delle competenze personali appare esplicito. Il "che cosa" lo studente deve sapere (conoscenze) e "fare" (abilità), "che cosa" poi analiticamente precisato nelle Indicazioni nazionali, è un mezzo per farlo crescere in tutti gli aspetti che caratterizzano la sua personalità e per renderlo maturo nell'agire personale e sociale.
Il Profilo non nega il valore formativo delle discipline riportate nelle Indicazioni nazionali per i Piani di Studio Personalizzati, ma ribadisce che le discipline sono valore formativo solo se diventano un "chi", ovvero se trasformano le capacità intellettuali, sociali, morali ecc. di un ragazzo nelle competenze che lo rendono la persona che è e che vuole essere nella società e nel mondo del lavoro. Sapere e fare che diventano essere personale: agire.
Da questo punto di vista, il Profilo è garanzia che la progettazione e l'attuazione di Piani di Studio Personalizzati che non invertano il rapporto tra discipline di studio (mezzi) e persona (fine).
Inoltre, costituisce la bussola per dare unità e coordinamento a tutti gli interventi educativi e didattici posti intenzionalmente in essere dall'istituzione scolastica e, in collaborazione con essa, dalla famiglia e dalle iniziative integrate promosse nel territorio.
In questo senso, il Profilo, attraverso lo studio e le attività scolastiche, e senza separazioni fra cultura umanistica, scientifica e tecnica, intende presentarsi come uno strumento di garanzia per promuovere l'integralità della persona umana di ogni allievo, e prepararlo ad affrontare la vita nella sua interezza.
Poiché la persona umana è sempre un'unità integrale ed integrata di motricità, razionalità, socialità, affettività, operatività, espressività, moralità e religiosità, invita, quindi, la scuola e i docenti ad impostare anche l'insegnamento scolastico più specifico e specialistico alla luce del principio ologrammatico che coglie e sollecita il tutto anche nella parte e che fa dell'apertura all'intero della cultura e della vita il tratto fondamentale del proprio costituirsi.
Anche l'intervento più minuto e formale di matematica, infatti, è ricco di risonanze storiche, geografiche, estetiche, espressive, letterarie, affettive, motorie, sociali, morali e religiose che vanno colte, valorizzate e suggerite; e anche le abilità professionali più specializzate non possono mai essere presentate ed usate come fine, ma piuttosto sempre come un mezzo per la promozione contemporanea di tutti gli aspetti della personalità dell'allievo: non è possibile, infatti, mirare al cittadino o al lavoratore senza mirare all'uomo completo, e, viceversa, promuovere l'uomo completo senza farlo positivamente vivere nell'insieme delle dinamiche della città e senza renderlo competente in senso rigoroso nell'esercizio di un lavoro.
Nella nozione di professionalità, del resto, non va ricompreso soltanto il riferimento all'esercizio di competenze personali nel mondo del lavoro, ma anche quello etimologico al semplice poter 'professare in pubblico' le competenze personali maturate, meritando stima, rispetto e compiacimento, perché frutto del massimo sviluppo possibile delle proprie capacità.

Le Indicazioni nazionali per i Piani di Studio Personalizzati. Per contrastare ed evitare i rischi della frammentazione e della polarizzazione educativa e culturale nel sistema educativo nazionale di istruzione e di formazione, le Indicazioni nazionali, dopo aver presentato, sulla base dell'art. 2 della legge delega, i tratti essenziali che caratterizzano lanatura e l'identità del grado scolastico di riferimento, sulla base dell'art. 8 comma 1 e dell'art. 13, comma 1 del Dpr 275/99, esplicitano:
a) gli "obiettivi generali del processo formativo";
b) gli "obiettivi specifici di apprendimento" da utilizzare per promuovere le (relativi alle) competenze personali degli allievi;
c) il significato della richiesta, avanzata nei confronti dei docenti, di progettare la trasformazione degli "obiettivi specifici di apprendimento" in competenze degli allievi tramite la costruzione delle Unità di Apprendimento, composte da "obiettivi formativi con relativi standard di prestazione, metodi e attività, verifiche" che vanno poi a costituire i Piani di Studio Personalizzati;
d) i criteri per la compilazione del Portfolio delle competenze personali;
e) i vincoli culturali (discipline, educazione alla Convivenza civile) e organizzativi che ogni istituzione scolastica è tenuta a rispettare nella elaborazione del proprio Pof e dei Piani di Studio Personalizzati.
Le Indicazioni nazionali prescrivono, quindi, "i livelli essenziali di prestazione (intesi qui nel senso di standard di prestazione del servizio) che le scuole pubbliche della Repubblica sono tenute in generale ad assicurare ai cittadini per mantenere l'unità del sistema educativo nazionale di istruzione e di formazione, per impedire la frammentazione e la polarizzazione del sistema e, soprattutto, per consentire ai bambini la possibilità di maturare in termini adatti alla loro età tutte le dimensioni tracciate nel Profilo educativo, culturale e professionale". In pratica, prescrivono ciò "a cui tutte le scuole del Sistema Nazionale di Istruzione sono tenute per garantire il diritto personale, sociale e civile all'istruzione e alla formazione di qualità".
Gli "obiettivi generali del processo formativo" orientano la natura e il significato degli interventi educativi e didattici che i docenti e la scuola sono chiamati a predisporre al servizio del massimo ed integrale sviluppo possibile delle capacità di ciascun allievo.
Gli "obiettivi specifici di apprendimento" precisano le conoscenze (il sapere) e le abilità (il saper fare) che tutte le scuole della Repubblica, nei diversi periodi didattici della Scuola Secondaria di I grado, sono invitate dallo Stato ad organizzare in attività educative e didattiche unitarie volte alla concreta e circostanziata promozione delle competenze finali degli allievi a partire dalle loro capacità. Essi sono presentati ordinati per discipline e per "educazione alla Convivenza civile".
Le Indicazioni nazionali, dunque, non hanno come soggetto logico delle proprie prescrizioni l'allievo, ma l'istituzione scolastica, in tutte le figure educative e organizzative che la costituiscono.
Esse, infatti, precisano non ciò che un singolo allievo, più o meno ideale, deve sapere o fare ad un determinato livello di prestazione, in quanto singolo, alla conclusione di un periodo didattico, ma ciò che le istituzioni scolastiche pubbliche, statali e non statali, e i docenti, sono obbligati deontologicamente e tecnicamente, in ogni regione del Paese, ad usare per progettare i propri autonomi percorsi formativi al servizio degli allievi, e di cui poi sono obbligati a rendendo conto (accountability) alle famiglie, agli allievi e alla società nel suo complesso, grazie ai processi della valutazione interna (autovalutazione di sistema, valutazione degli apprendimenti) ed esterna (valutazione di sistema e degli apprendimenti, affidata all'Invalsi).
Le Indicazioni nazionali, quindi, coerentemente all'art. 8, comma 1, punto b e f del Dpr 275/99, sono standard obbligatori di prestazione del servizio professionale che le scuole e i docenti sono tenuti ad erogare per promuovere le competenze degli allievi e che l'Amministrazione statale è obbligata a controllare siano garantiti; non sono standard minimi (o massimi) di apprendimento che devono essere raggiunti e, se possibile, superati dai singoli allievi di tutte le scuole d'Italia.
Non a caso, quando scandiscono, per ogni annualità o per ogni biennio, gli elenchi delle conoscenze e delle abilità a cui riferirsi per organizzare l'insegnamento personalizzato agli allievi, fanno precedere tali elenchi dalla seguente premessa: alla fine dell'anno o del biennio, "la scuola ha organizzato, per lo studente, attività educative e didattiche unitarie che hanno avuto lo scopo di aiutarlo a trasformare in competenze personali le seguenti conoscenze e abilità disciplinari". La "scuola ha organizzato", non "lo studente deve aver raggiunto", "deve essere in grado di...".
D'altra parte, se le Indicazioni nazionali avessero avuto la pretesa di indicare standard e livelli di apprendimento per gli allievi, avrebbero dovuto scrivere gli "obiettivi specifici di apprendimento" in maniera anche tecnicamente diversa. Avrebbero, cioè, precisato per ciascun obiettivo, anche gli standard e i livello minimi di padronanza attesi per tutti gli allievi. In questo senso, le Indicazioni nazionali dovevano pure dichiarare che chi non avesse raggiunto gli standard e i livelli di apprendimento stabiliti avrebbe dovuto essere negativamente sanzionato sul piano valutativo. Avrebbero, insomma, dovuto essere caratterizzate da una chiara filosofia prestazionistica di tipo selettivo che è, invece, loro del tutto estranea.
Definendo, al contrario, obblighi deontologici e tecnici per le scuole e i docenti, e mediatamente, quindi, anche per gli allievi e le famiglie, le Indicazioni nazionali sono coerenti con il principio costituzionale di sussidiarietà. Non presuppongono, infatti, che l'ente più lontano dall'alunno (lo Stato) possa fare ciò che solo l'alunno, innanzitutto, e poi le "formazioni sociali" che gli sono più vicine (la famiglia, la scuola) possono e debbono fare, in autonomia e responsabilità, per la sua concreta miglior educazione. Nel caso specifico, se il centro avesse definito gli standard e i livelli di apprendimento degli allievi non avrebbe potuto farlo che in maniera astratta, appunto da media statistica (di norma), senza tener conto delle capacità potenziali e delle competenze reali di ogni singolo allievo, della storia personale di ciascuno e del contesto sociale e ambientale in cui egli è cresciuto e ora si sta sviluppando. A questo punto, ogni richiamo alla 'personalizzazione' e a valutazioni di criterio sarebbe stato retorico.
Per questo le Indicazioni nazionali, dopo aver precisato il compito e la natura degli obiettivi specifici di apprendimento, scrivono che "il 'cuore' del processo educativo si ritrova nel compito delle istituzioni scolastiche e dei docenti di individuare gli obiettivi formativi adatti e significativi per i singoli allievi che si affidano al loro peculiare servizio educativo, compresi quelli in situazione di handicap, e di progettare le Unità di Apprendimento (U.A.) necessarie a raggiungerli e a trasformarli, così, in reali competenze di ciascuno".
Traduzione: le Indicazioni nazionali dettano gli "obiettivi specifici di apprendimento" riferiti alle competenze da promuovere negli allievi italiani. È compito, tuttavia, dei docenti che hanno in carico i singoli allievi, e quindi che sono i soggetti sussidiariamente loro più prossimi, operare per formulare le UA che contengono anche gli standard di prestazione attesi dai singoli allievi.
L'ordine di presentazione delle conoscenze e delle abilità che costituiscono gli "obiettivi specifici di apprendimento" non va, quindi, confuso con il loro ordine di svolgimento psicologico e didattico con gli allievi. Il primo vale come spunto e promemoria per i docenti. In questa prospettiva, gli obiettivi specifici di apprendimento sono la "materia prima culturale" che i docenti sono chiamati a mettere "in forma", cioè ad adoperare per architettare le loro autonome iniziative educative e didattiche al servizio della persona degli studenti.
Il secondo vale, invece, per gli allievi, è tutto affidato alle determinazioni professionali delle istituzioni scolastiche e dei docenti, ed entra in gioco quando si passa dagli "obiettivi specifici di apprendimento" agli obiettivi formativi delle diverse Unità di Apprendimento. In questa prospettiva, gli obiettivi formativi sono la "forma", fatta di diverse combinazioni qualitative e quantitative, assegnata di volta in volta dai docenti alla "materia prima culturale" contenuta nelle Indicazioni nazionali.
Per questo non bisogna attribuire al primo ordine la funzione del secondo. Soprattutto, non bisogna cadere nell'equivoco di impostare e condurre le attività didattiche quasi in una corrispondenza biunivoca con ciascun obiettivo specifico di apprendimento. L'insegnamento, in questo caso, infatti, diventerebbe una forzatura. Al posto di essere frutto del giudizio e della responsabilità professionale necessari per progettare gli obiettivi formativi a partire dagli obiettivi specifici di apprendimento, ridurrebbe i primi ad un pleonasmo o ad una esecutiva applicazione dei secondi. Inoltre, trasformerebbe l'attività didattica in una ossessiva e meccanica successione di esercizi/verifiche degli obiettivi specifici di apprendimento indicati, che toglierebbe ogni respiro educativo e culturale all'esperienza scolastica.
Non bisogna, inoltre, dimenticare che, se anche gli obiettivi specifici di apprendimento sono indicati per le diverse discipline e per l'educazione alla Convivenza civile in maniera minuta e segmentata, obbediscono, in realtà, anch'essi, e ciascuno, al principio dell'ologramma: gli uni rimandano agli altri; un obiettivo specifico di apprendimento di una delle dimensioni della Convivenza civile è sempre anche disciplinare e viceversa; dentro la disciplinarità anche più spinta va sempre rintracciata l'apertura inter e transdisciplinare: la parte che si lega al tutto e il tutto che non si dà se non come parte.
Gli obiettivi specifici di apprendimento non hanno, infine, alcuna pretesa validità per i casi singoli, siano essi le singole istituzioni scolastiche o, a maggior ragione, i singoli allievi. È compito esclusivo di ogni scuola autonoma e dei docenti, infatti, nel concreto della propria storia e del proprio territorio, assumersi la libertà di mediare, interpretare, ordinare, distribuire ed organizzare gli obiettivi specifici di apprendimento in obiettivi formativi, considerando, da un lato, le capacità complessive di ogni allievo che devono essere sviluppate al massimo grado possibile e, dall'altro, le teorie pedagogiche e le pratiche didattiche che ritengono, a questo scopo, scientificamente più affidabili e professionalmente più efficaci.
Allo stesso tempo, tuttavia, è compito esclusivo di ogni scuola autonoma e dei docenti assumersi la responsabilità di "rendere conto" delle scelte fatte e di porre le famiglie e il territorio nella condizione di conoscerle e di condividerle.

Ruolo e contenuti dei Documenti interni di scuola
I Documenti nazionali non indicano né un processo, né un risultato di apprendimento, ma condizioni organizzative e culturali per l'uno e per l'altro.
Non precisano, quindi, ciò che ogni singolo studente è tenuto a sapere alla fine della frequenza della sua scuola di periferia o di città per la semplice ragione che prescindono dall'allievo concreto e, quindi, non sanno se per lui quei livelli di apprendimento attesi e quelle prestazioni richieste obbligatoriamente alle scuole e ai docenti abbiano davvero, per lui, un ruolo educativamente promozionale piuttosto che negativo.
Né tantomeno, possono aspirare a costituire la mappa d'azione dell'attività reale dei docenti, una specie di tabella di marcia per cui si potrebbe immaginare una qualche forma di corrispondenza biunivoca tra l'ordine e la connessione degli "obiettivi specifici di apprendimento" e l'ordine e la connessione degli "obiettivi formativi" delle diverse "unità di apprendimento".
Il fatto che tutto ciò sia ovvio impone di non chiedere a uno strumento ciò che esso non può dare.
Poiché l'educazione è sempre un processo, mai un risultato (a meno che si intenda per risultato il processo stesso, ma a questo punto saremmo al gioco di parole); è sempre riferita a soggetti concreti in situazione, non a soggetti astratti; esige non l'applicazione di regole, ma la responsabilità costante del giudizio e dell'arbitrato, diventa naturale impiegare i Documenti nazionali niente più che come vincoli/risorse perché ciascuna scuola e ciascun docente decidano responsabilmente che cosa fare, perché, quando e come nelle circostanze date per i loro alunni, le loro famiglie, il loro territorio. L'unico atteggiamento possibile, dunque, non è l'applicazione esecutiva di disposizioni, ma la progettazione di interventi e la continua azione riflessiva su di essi.
Progettazione perché bisogna essere consapevoli della realtà che c'è prima di fare qualsiasi cosa, insegnamento compreso. Sapere come è la situazione socio-ambientale della scuola in cui si opera, la situazione familiare dell'allievo, il grado di competenze professionali su cui si può contare, le attese delle famiglie, le risorse disponibili, la fluidità o la viscosità delle relazioni con i colleghi ecc. Appartiene al sapere come stanno le cose anche considerare il fatto che lo Stato, d'intesa con le Regioni, per conto della Repubblica, chiede che si assicurino determinati livelli essenziali di prestazione e controlla pure se e in che senso siano assicurati.
Ma proprio un'analisi della situazione realistica e completa è la condizione per una progettazione educativa non velleitaria. Occorre allora mettere insieme tutti gli elementi in campo e poi decidere che cosa fare, come farlo, in quanto tempo, con chi e con che cosa, avendo sempre di mira il massimo sviluppo possibile delle capacità dell'allievo e le sue esigenze evolutive nell'attuale società. Professionalità e autonomia è procedere a questa continua ricombinazione dei fattori in gioco, e risponderne nel bene e nel male.
La progettazione e poi la decisione responsabile, tuttavia, non sono possibili senza una costante azione riflessiva. Imparare dall'esperienza, correggere mentre si procede, adattare anche le scelte prese con il più alto grado di consapevolezza e di responsabilità. Nell'insegnamento, come in qualsiasi prestazione professionale, non esistono manuali e istruzioni per l'uso che restano valide per poco o per tanto che dir si voglia. Si è sempre nelle condizioni dell'equilibrista sul filo. Bisogna stare attenti ogni momento per assumere in ogni momento non i comportamenti prestabiliti, ma quelli che la situazione impone.
I Documenti di scuola vivono tutti di questo intreccio tra progettazione ed azione riflessiva.
Non possono essere rigidi. Tantomeno elaborati per dovere burocratico, e ridotti a carte compilate.
Devono, invece, essere non solo per i docenti, ma anche per le famiglie e gli allievi uno strumento sostanziale che li aiuta a crescere e che fa crescere il "capitale umano e sociale" su cui poi tutti, interni ed esterni alla scuola, possono contare.

Il Piano dell'Offerta Formativa. Il primo Documento interno di scuola che deve corrispondere a questa dinamica è il Pof. Esso è "il documento fondamentale costitutivo dell'identità culturale e progettuale delle istituzioni scolastiche" (art. 3 del Dpr 275/99). Tenendo conto del PECUP e delle Indicazioni Nazionali, da un lato, e della realtà territoriale e degli allievi, dall'altro, traccia le linee e le condizioni che i singoli docenti devono aver presenti per redigere i PSP.
Il Pof (art. 3 del Dpr 275/99) è elaborato dal Dirigente e dal collegio dei docenti, che può avvalersi di una commissione che nasce al suo interno. Essi tengono conto delle "scelte generali di gestione e di amministrazione definiti dal consiglio di circolo e di istituto" e delle proposte e dei pareri "formulati dagli organismi e dalle associazioni anche di fatto dei genitori e, per le scuole secondarie superiori, degli studenti" (id.).
Il Pof è approvato dal collegio docenti e dal consiglio di circolo o di istituto. Viene redatto prima dell'inizio del nuovo anno scolastico e consegnato alle famiglie per rendere concreta la loro libertà di scelta educativa (art. 21 della legge n. 59/97). In questo senso, "comprende e riconosce le diverse opzioni metodologiche, anche di gruppi minoritari" (art. 3, co. 2 Dpr 275/99).
Con l'autonomia didattica, organizzativa e amministrativa introdotta dai decreti attuativi dell'art. 21 prima citato, il Pof ha perduto qualunque carattere di autoreferenzialità. Esso, infatti, è il crocevia che armonizza le azioni, l'intenzionalità, la domanda e l'offerta di parecchi soggetti istituzionali: 1) dello Stato, che elabora i Documenti nazionali prescrittivi (PECUP e Indicazioni); 2) degli Enti territoriali (Comune, Provincia, Città metropolitana, Regione), che dopo il Titolo V svolgono un ruolo fondamentale nell'organizzazione e nella gestione del sistema educativo di istruzione e di formazione; 3) delle istituzioni scolastiche e dei loro organi di gestione; 4) delle famiglie e delle altre "formazioni sociali" di territorio.
Le funzioni di questo Documento sono molteplici: connette il nazionale e il locale, risponde ai bisogni educativi delle famiglie e del territorio, esplicita le offerte formative che ogni studente può adoperare per la propria crescita, dimostra e valorizza la professionalità del dirigente e dei docenti, ottimizza la mobilitazione delle risorse, declina le intese con gli Enti territoriali e con le altre istituzioni scolastiche (la rete di scuole). Per questo è difficile pensarlo come un semplice adempimento amministrativo-burocratico, o come il lavoro, magari accurato ma non condiviso dagli altri soggetti della scuola, di una ristretta équipe, o, ancora, come un fascicolo avulso dal più complesso contesto di riforme che riguardano l'intero sistema scolastico, per esempio il più volte citato Titolo V della Costituzione e la legge 59/97.
Si può sostenere, invece, che sia la prova più eloquente della capacità di ogni istituzione scolastica di sostenere ed esprimere l'autonomia funzionale che le è stata riconosciuta dall'art. 1 del Dpr 275/99, dove il concetto di "autonomie funzionali" rimanda alla presenza di corpi sociali rappresentativi di interessi e/o svolgenti funzioni di rilievo pubblico, con propria capacità di autogoverno e di autoamministrazione.
Le istituzioni scolastiche hanno, perciò, responsabilità pubblica e intraprendono azioni e procedure che rispondono al pubblico interesse e alla domanda di istruzione e di formazione delle famiglie e del territorio, all'interno di una comunità nazionale. Quindi, soggettività, discrezionalità, originalità e autogoverno.
Le modalità di redazione dei Pof sono numerose: perlomeno tante quante sono le istituzioni scolastiche e il modo con cui esse instaurano il loro rapporto con le famiglie, i ragazzi e il territorio.
Può essere utile, comunque, confrontarsi con alcuni titoli che spesso ritornano nelle redazioni di Pof finora disponibili sui diversi siti delle scuole:
- presentazione e identità della scuola (dati, storia, indirizzi, orario, Laboratori, finalità, obiettivi, Carta dei servizi, Patto educativo scuola-famiglia, Contratto formativo...);
- qualità dell'offerta formativa (criteri e strategie comuni per la attuazione delle Indicazioni Nazionali e del PECUP, progetti elaborati per l'educazione alla Convivenza civile, organizzazione dei Laboratori e della dinamica gruppo classe/gruppi interclasse o di rete di livello, di compito ed elettivi, iniziative per assicurare il coordinamento degli insegnanti da parte del docente coordinatore-tutor, modalità comuni decise per la costruzione dei PSP e del Portfolio delle competenze personali, proposte in merito all'eventuale utilizzazione delle Raccomandazioni, attività per il coinvolgimento dei genitori e degli altri soggetti educativi presenti nel territorio, criteri di valutazione e predisposizione di quanto necessario per garantire il miglior funzionamento della autovalutazione d'istituto e della valutazione esterna, strumenti di verifica della diffusione e trasparenza delle attività e della diffusione delle informazioni...);
- potenziamento dell'offerta formativa (accoglienza, continuità, Larsa: approfondimento, sviluppo e recupero degli apprendimenti, orientamento per il passaggio al grado di scuola successivo, stage, formazione insegnanti, integrazione alunni in situazione di handicap, integrazione alunni stranieri, progetti di eccellenza, attività in rete...);
- organizzazione e risorse (organico dei docenti e dei non docenti, aule, spazi per organizzare i Laboratori attrezzati, palestre, sedi staccate e succursali, attivazione della mensa, biblioteche...);
- strumenti e modalità condivise per l'autovalutazione di istituto, per la valutazione delle conoscenze e delle abilità, per la valutazione delle competenze personali di scuola o certificate da altre scuole nel Portfolio, per la gestione dei dati offerti dalla valutazione esterna.

Organizzazione e attività scolastica. Per molto tempo, si è pensato che si potesse creare ordine ed armonia dentro l'istituzione formativa e nei suoi rapporti con l'ambiente, adottando metodi gerarchici da razionalità burocratico-amministrativo, oppure da azienda fordista, basata su una scomposizione pianificata delle funzioni e delle responsabilità. Da tempo, tuttavia, si è consapevoli della debolezza di questi metodi e si è scoperto quanto sia difficile creare ordine e armonia in qualsiasi istituzione, continuando a presupporre qualcuno che ne predetermini l'organizzazione a priori e molti altri che la ricevano già confezionata a posteriori.
Si crea, al contrario, ordine e armonia funzionale quando l'organizzazione non è separata dai soggetti cui è destinata, ma si trasforma in una "organizzazione che apprende", dove i soggetti, cioè, tutti, sebbene in modo diverso, sono protagonisti, comunicano e cooperano per il perseguimento di uno scopo condiviso e dotato di senso.
È ogni attore di un'istituzione e di un contesto, dunque, non solo qualcuno, che crea organizzazione e che inventa e fissa nuovi modi di stare insieme con gli altri non solo per essere sempre meglio reciprocamente soddisfatti, ma anche per concretizzare meglio gli scopi istituzionali.
Il Pof è chiamato porre le condizioni per abbandonare la teoria e la pratica di un'organizzazione scolastica e formativa che sia più una serie di strutture rigide predeterminate a cui alcuni decisori chiedono ai destinatari delle decisioni di adattarsi che un processo di continui assestamenti intenzionalmente deliberati da tutti i soggetti coinvolti, per realizzare meglio gli scopi personali e istituzionali e per negoziare insieme significati condivisi.
In questa direzione, esso è occasione per:
- coinvolgere studenti, famiglie e territorio nei problemi che nascono dalla necessità di concretizzare il Profilo educativo, culturale e professionale e le Indicazioni nazionali nei Piani di Studio Personalizzati;
- valorizzare gli spazi della flessibilità personale e istituzionale (le famiglie possono decidere se iscrivere alla scuola dell'infanzia e alla scuola primaria i figli che compiono i 3 e i 6 anni entro il 28 febbraio dell'anno scolastico di riferimento; le famiglie possono scegliere un orario della scuola dell'infanzia che può oscillare tra 745 e 1700 ore annuali a seconda delle esigenze educative del bambino; nelle scuole secondarie i ragazzi, le famiglie e le scuole hanno a disposizione fino a 198 ore annue oltre l'orario obbligatorio di 891 ore annue per procedere ad attività opzionali facoltative e ad interventi di recupero o sviluppo degli apprendimenti; le scuole, in base alle esigenze di apprendimento degli allievi, ai risultati finali da raggiungere e alle esigenze avanzate dalle famiglie e dal territorio, possono distribuire il loro calendario delle lezioni su un orario settimanalmente variabile e su un arco di settimane che può anche superare le 33 ecc.);
- passare da un'organizzazione scolastica basata sull'unità amministrativa della "classe" (tutto o troppo, nella scuola attuale, ruota ancora attorno alla "classe": gli orari settimanali e annuali degli allievi e dei docenti, gli organici, l'uso dei Laboratori attrezzati, l'adozione dei libri di testo, gli organi collegiali ecc.) ad un'organizzazione scolastica basata sulle "teste" degli allievi (si giustifica solo in questo modo, del resto, che ogni tutor abbia la titolarità non di una "classe" ma di un gruppo di allievi che segue nel loro comporsi e ricomporsi non solo nel gruppo classe, ma anche nei gruppi di classe/interclasse di livello, di compito o elettivi; che ogni docente, nelle sue attività laboratoriali e nei Laboratori attrezzati si rivolga non astrattamente a "classi", ma a gruppi classe/interclasse o addirittura a singoli; che i docenti non siano assegnati alle "classi", ma, nella logica dello staff, in quanto appartenenti ad un unico organico di istituto, a gruppi di alunni e su progetti ecc.);
- articolare le funzioni all'interno dello staff dei docenti per rispondere sempre meglio ai bisogni educativi di singoli e di gruppi (coordinamento, tutorato, responsabili di progetti speciali, documentalista, media education, responsabili delle eventuali aule attrezzate di fisica, informatica, attività motoria ecc.);
- sensibilizzare al lavoro cooperativo in rete, senza imbozzolarsi in recinti ed erigere steccati perché le relazioni interistituzionali, territoriali, sociali e interpersonali costituiscono un potente fattore di motivazione, di apprendimento e di conferimento di senso al complesso della vita istituzionale e dell'attività didattica.

Il docente Tutor coordinatore. La flessibilità, la rete, l'alternanza di momenti di lavoro in gruppi classe e in gruppi di classe/interclasse di livello, di compito ed elettivi sono solide opportunità formative, ma possono generare, se appunto non ben "organizzate", disorientamento e confusione che finirebbero per penalizzare sul piano educativo soprattutto i soggetti più deboli.
Allo scopo di garantire l'organicità e l'ordine delle attività educative e didattiche, al servizio dei singoli allievi, in un ambiente sempre più complesso come si rivela la scuola dell'autonomia, le Indicazioni nazionali presuppongono di affidare a un docente sia il tutorato degli alunni sia il coordinamento della propria attività con quella dei colleghi. Pare naturale, perciò, che il Pof disponga concreti profili di impiego e di servizio per i docenti che svolgono questa funzione.
Il primo sembra quello del coordinamento dell'équipe pedagogica che entra in contatto con gli allievi che gli sono affidati in tutorato. Questi ultimi, infatti, possono lavorare sia insistendo sullo stesso gruppo classe sia aggregandosi in gruppi di classe/interclasse di livello, di compito ed elettivi. In questo senso, possono avere anche una pluralità di docenti che non necessariamente coincidono sempre con i docenti del gruppo classe. È quindi necessaria una funzione di coordinamento che può consistere nei seguenti compiti:
- mettere in circolo scelte e materiali didattici dei colleghi;
- propiziare le collaborazioni interdisciplinari e transdisciplinari;
- risolvere i problemi gestionali e organizzativi che il lavoro in comune per gli allievi sempre richiede;
- curare, seguendo le indicazioni del dirigente, le modifiche di orario, le uscite d'aula o di scuola;
- raccogliere le Unità di Apprendimento preparate dall'équipe pedagogica per gli allievi del suo gruppo classe, coordinarle e farle a mano a mano rifluire nei Piani di Studio Personalizzati.
Il secondo profilo di impiego e di servizio è quello del tutorato personale degli studenti che gli vengono affidati dal dirigente scolastico e che egli deve accompagnare per l'intera durata degli studi nella stessa scuola. In questa veste, sempre coinvolgendo obbligatoriamente la famiglia, il docente tutor è chiamato:
- a rendere consapevoli gli studenti di ciò che il Profilo educativo, culturale e professionale domanda loro per la fine del ciclo di studi;
- ad illustrare ad allievi e famiglie le conoscenze e le abilità che scandiscono le Indicazioni nazionali per i diversi periodi didattici: è buona regola didattica, infatti, comunicare sempre con chiarezza i vincoli che si è chiamati a rispettare e, soprattutto, scoprire insieme perché è importante farlo;
- a rappresentare loro i tempi che, prevedibilmente, servono per trasformare le conoscenze e le abilità presenti nelle Indicazioni nazionali in competenze di ciascuno, sempre tenendo conto delle differenti situazioni di partenza;
- a consigliarli sugli orari e sui programmi di lavoro che sarebbe bene essi frequentassero, avendo presenti tutte le opportunità messe a disposizione dal Piano dell'offerta formativa, dalla rete di scuole e dal territorio, delle loro caratteristiche di personalità, dei loro stili di apprendimento e del loro livello di preparazione;
- a mettere a fuoco i contenuti e gli elementi del percorso di istruzione e di formazione che interpellano l'identità personale degli allievi;
- a sostenere la messa in atto di processi conoscitivi ed operativi che chiedono l'integrazione di più livelli di apprendimento e di dimensioni della personalità, nonché il rapporto con situazioni diversificate e complesse.
Il docente tutor, quindi, rende consapevoli gli studenti e le famiglie dei risultati da raggiungere e li guida, li stimola, li esercita in questa scoperta (coaching); li contiene nelle loro ansie e li sostiene emotivamente (holding), li consiglia e li orienta (counselling) nell'affrontare i loro impegni e nel risolvere i loro problemi.
Attraverso il coaching allena gli allievi che gli sono affidati al costante miglioramento di se stessi, li aiuta ad identificare i punti di forza e di debolezza, definisce con loro il Piano di Studi Personalizzato, finalizzato a massimizzare l'efficacia e l'efficienza delle prestazioni, a vantaggio di se stessi, della sezione e dell'intera scuola, evita di cadere nel paradigma del 'più di prima' ovvero nell'aumentare le dose di una medicina didattica quando si accorge che non funziona e cerca, insieme con i colleghi e con loro, soluzioni più creative, divergenti, non scontate ai problemi che si presentano.
Attraverso l'holding, inoltre, media e contiene le emozioni, le preoccupazioni e i conflitti, ascolta, rassicura, aiuta, infonde fiducia, testimonia attenzione e partecipazione a quanto gli allievi e le loro famiglie sentono come problema o come sfida.
Attraverso il counselling, infine, responsabilizza gli allievi, li rende consapevoli dei loro livelli di maturazione, li abilita a prendere decisioni personali, instaura con le loro famiglie il colloquio educativo indispensabile ai fini del successo formativo.
Il terzo e ultimo profilo di impiego e di servizio del docente coordinatore tutor si può ravvisare nella documentazione pedagogica. Già, in parte, si è sostanziata descrivendo i compiti previsti ai due punti precedenti. In ogni caso, va ricordato che essa si articola anche nella compilazione del Portfolio delle competenze personali e nella tenuta e classificazione, informatica o cartacea, delle Unità di Apprendimento che andranno poi a costituire i Piani di Studio Personalizzati.

I Laboratori attrezzati. Già si è cercato di precisare la natura dei Laboratori e dell'attività laboratoriale. Si è osservato che costituiscono modalità ordinaria dell'attività formativa e che, perciò, chiamano in causa senza distinzioni tutti i docenti.
Questo non esclude ovviamente che, nel Pof, si preveda la costituzione di aree attrezzate per lo svolgimento di attività laboratoriali particolarmente dedicate, sia nell'orario obbligatorio, sia in quello opzionale facoltativo. E si individuino pure docenti responsabili non solo della loro manutenzione, ma anche dell'organica successione organizzativa ed epistemologica delle attività che vi si svolgono.
I Laboratori attrezzati di cui sarebbe consigliabile assicurare la presenza o nell'istituto o in rete, nell'ambito del primo ciclo, sono sei:
- Attività Informatiche ( progetti disciplinari e transdisciplinari che prevedono l'utilizzo delle Tic, comunicazione in rete, ecc.);
- Lingue (lingua madre, inglese, lingue moderne, latino opzionale facoltativo nella scuola secondaria di I grado...);
- Attività espressive (teatro, mimo, danza, canto...);
- Attività di Progettazione (restauro, cucito, cucina, stamperia, officina... materiali di chimica, fisica, geologia..., progetto ambiente, ...);
- Attività fisiche e sportive (giochi di squadra, corsi di nuoto, vela, sci, ...);
- LARSA (Laboratori di Approfondimento, Recupero e Sviluppo degli Apprendimenti).
Da sottolineare il ruolo di quest'ultimo Laboratorio. Poiché non tutti i ragazzi necessitano di tempi uguali per gli stessi apprendimenti, né godono delle stesse opportunità familiari ed ambientali per acquisire gli obiettivi formativi stabiliti da ogni istituzione scolastica, va ricordato che è indispensabile l'intervento di una funzione compensativa della scuola: dare di più a chi ha di meno e dare meglio a tutti. Occorre perciò utilizzare uno strumento flessibile come il Laboratorio LARSA che permette di personalizzare i processi di apprendimento e di maturazione, nella piena consapevolezza che spesso non è necessario agire sulla quantità ma sulla qualità e sulla pluralità piuttosto che sulla ripetitività del metodo (non è sempre vero che con tanti esercizi di riflessione sulla lingua, si migliora l'abilità linguistica di un alunno in difficoltà, a volte occorrono un approccio metodologico diverso, un ambiente di apprendimento meno affollato, l'utilizzo di un diverso tipo di intelligenza, un rapporto relazionale diverso, ...).
I LARSA possono essere assegnati al docente responsabile della disciplina oppure possono essere progressivamente affidati a docenti che si specializzano anche sul piano scientifico sul tema del recupero e dello sviluppo degli apprendimenti.
Nei LARSA, non sono da escludere, previa accurata organizzazione dei docenti, forme di mutuo insegnamento tra gli allievi più esperti e principianti, e le differenti formule che oggi contraddistinguono le pratiche della peer education e del cooperative learning. Adoperando queste metodologie, nella maggior parte dei casi, i tutelati non solo non sviluppano nei confronti dei loro compagni riconosciuti più competenti alcuna dipendenza cognitiva, ma traggono molto profitto dalle spiegazioni. I tutori, per converso, non perdono affatto tempo, seguendo i compagni; al di là del significato morale e del valore sociale di questo loro servizio, infatti, essi acquistano una comprensione più profonda della disciplina insegnata. Il reciproco insegnamento (apprendimento per consulenza o per collaborazione tra pari), inoltre, motiva maggiormente l'interesse emotivo, la partecipazione sociale e la ricerca di ulteriori livelli di approfondimento.
Tutti i Laboratori attrezzati possono essere predisposti all'interno dell'Istituto e/o tra più Istituti in rete, servendosi dell'organico d'Istituto e/o di rete a disposizione; ciò consente di ottimizzare l'utilizzo di precise professionalità anche tra Istituti diversi che hanno realizzato percorsi formativi di particolare competenza, ma anche tra istituti di ordine diverso.
Per esempio, può diventare opportunità per tutte le scuole, non più privilegio esclusivo degli Istituti Comprensivi, utilizzare i docenti di Musica, di Attività Fisiche e Sportive e di Lingua Inglese della scuola secondaria di I grado anche per gli allievi della scuola primaria; i docenti della scuola primaria, per contro, possono diventare un prezioso stimolo nella scuola secondaria di I grado per iniziative di continuità in ordine a progetti avviati in collaborazione tra i due ordini di scuola (un progetto lettura, di educazione ambientale, di recitazione, ...); può diventare una risorsa di rete l'organico di cui si avvalgono le scuole ad indirizzo musicale, così come può diventare risorsa comune l'esperienza maturata e consolidata da alcune scuole nel campo dell'educazione ambientale, delle attività teatrali, dell'attività relativa alle nuove tecnologie di comunicazione e così via.
Qualunque siano, comunque, le modalità organizzative adottate, i docenti dei Laboratori entrano a pieno titolo a far parte dell'équipe pedagogica che realizza gli apprendimenti degli alunni; ciò allo scopo evidente di garantire una mediazione didattica adeguata ai bisogni degli allievi e di operare in modo integrato per tempi, contenuti e metodi con gli altri docenti e con il Tutor in particolare.
La partecipazione degli studenti ai Laboratori e alle attività laboratoriali svolte durante l'orario obbligatorio è disposta dalla scuola, dall'équipe pedagogica tramite la persona del docente coordinatore-tutor. Questi raccoglie anche tutti i suggerimenti forniti dalla famiglia e dall'allievo stesso circa i bisogni formativi, e li porta all'attenzione dei colleghi.
Laddove accada che, per diverse ragioni, la famiglia non partecipi alla costruzione di un percorso di apprendimento condiviso, la scuola si adopera per assolvere al meglio il proprio compito, utilizzando anche tutte le risorse istituzionali presenti sul territorio; in base alla propria professionalità e responsabilità deontologica, l'équipe pedagogica, coinvolto quanto più possibile l'allievo stesso, assume le decisioni necessarie.
La partecipazione degli studenti ai Laboratori e alle attività laboratoriali opzionali facoltative è disposta dalle famiglie all'atto dell'iscrizione, sulla base dell'offerta organizzativa predisposta dall'istituzione scolastica e della consulenza pedagogica dei docenti tutor che hanno seguito lo studente.

I Piani di Studio Personalizzati. Come recitano le Indicazioni nazionali, "il 'cuore' del processo educativo si ritrova nel compito delle istituzioni scolastiche e dei docenti di progettare le Unità di Apprendimento costituite dalla progettazione: a) - di uno o più obiettivi formativi tra loro integrati (definiti anche con i relativi standard di apprendimento, riferiti alle conoscenze e alle abilità coinvolte); b) delle attività educative e didattiche unitarie, dei metodi, delle soluzioni organizzative ritenute necessarie per concretizzare gli obiettivi formativi formulati; c) - delle modalità con cui verificare sia i livelli delle conoscenze e delle abilità acquisite, sia se e quanto tali conoscenze e abilità si sono trasformate in competenze personali di ciascuno".
"L'insieme delle Unità di Apprendimento effettivamente realizzate, con le eventuali differenziazioni che si fossero rese opportune per singoli alunni, dà origine al Piano di Studio Personalizzato, che resta a disposizione delle famiglie e da cui si ricava anche la documentazione utile per la compilazione del Portfolio delle competenze personali".
Gli "obiettivi generali del processo educativo" e gli "obiettivi specifici di apprendimento" delle Indicazioni nazionali diventano obiettivi formativi, quindi, nel momento in cui si trasformano nei compiti di apprendimento ritenuti realmente accessibili, in un tempo dato e professionalmente programmato, ad uno o più allievi concreti e sono, allo stesso tempo, percepiti da 'questi' allievi come traguardi importanti e significativi da raggiungere per la propria personale maturazione.
Si potrebbe dire, nel momento in cui ristrutturano l'ordine formale epistemologico da cui sono stati ricavati in quello reale, psicologico e didattico, di ciascun allievo, con la sua storia e le sue personali attese.
Anche gli obiettivi formativi, ovviamente, al pari degli obiettivi specifici di apprendimento, obbediscono alla logica ologrammatica. Si può sostenere, anzi, che la esaltino. Se non la testimoniassero nel concreto delle relazioni educative e delle esperienze personali di apprendimento difficilmente potrebbero essere ancora definiti "formativi".
Per questo non possono mai essere formulati in maniera atomizzata e prevedere corrispondenti performance tanto analitiche, quanto, nella complessità del reale inesistenti, ma vanno sempre esperiti a partire da problemi ed attività ricavati dall'esperienza diretta degli allievi.
Tali problemi ed attività, per definizione, sono sempre unitari e sintetici, quindi mai riducibili né ad esercizi che pretendono di raggiungere in maniera segmentata e scomposta gli obiettivi formativi, né alla comprensione dell'esperienza assicurata da singole prospettive disciplinari o da singole 'educazioni'. Richiedono, piuttosto, sempre, la mobilitazione di sensibilità e prospettive pluri, inter e transdisciplinari, nonché il continuo richiamo all'integralità educativa. Inoltre, aspetto ancora più importante, esigono di essere sempre dotati di senso, e quindi motivanti, per chi li affronta e svolge.
Come spiegano le Indicazioni nazionali, l'identificazione degli obiettivi formativi può scaturire dalla armonica combinazione di due diversi percorsi.
Il primo (bottom up) è quello che si fonda sull'esperienza degli allievi e individua, a partire da essa, le dissonanze cognitive e non cognitive che possono giustificare la formulazione di obiettivi formativi da raggiungere, alla portata delle capacità degli allievi e, in prospettiva, logicamente coerenti con il Profilo educativo, culturale e professionale, nonché con il maggior numero possibile di obiettivi specifici di apprendimento.
Il secondo (top down) è quello che può ispirarsi direttamente al Profilo educativo, culturale e professionale e agli obiettivi specifici di apprendimento e che considera, come già si accennava, se e quando, attraverso quali apposite mediazioni professionali di tempo, di luogo, di qualità e quantità, di relazione, di azione e di circostanza, aspetti dell'uno e degli altri possono inserirsi e integrarsi nella storia narrativa personale o di gruppo degli allievi, e possono essere percepiti da ciascun ragazzo, e dalla sua famiglia, nel contesto della classe, della scuola e dell'ambiente, come traguardi importanti e significativi per la propria crescita individuale.
Nelle azioni concrete dell'équipe pedagogica, tuttavia, è probabile che questi metodi analitici di cui parlano le Indicazioni nazionali siano di fatto mescolati e che gli obiettivi formativi delle UA nascano da un'intelligente improntitudine didattica e formativa.
Ma vediamo di definire con una precisione maggiore la struttura di un'unità di apprendimento e di considerare, poi, come e in che senso i Piani di Studio Personalizzati risultino dall'insieme di più UA.

A) Le Unità di Apprendimento.
Che cosa sono
. Le UA rappresentano l'unità di base per l'impostazione dell'attività di apprendimento-insegnamento. Come sintetizzato dalla scelta del nome, l'intenzione che le attraversa è quella di tenere unite due istanze tendenzialmente antinomiche:
a) l'impostazione del lavoro educativo e didattico secondo principi di razionalità, efficacia ed efficienza, mediante la segmentazione del tessuto continuo degli apprendimenti;
b) la necessità di riferirsi ad un apprendimento unitario e unificante per il rispetto che si deve all'integralità della persona, dei suoi bisogni, delle sue motivazioni, dei suoi tempi, ecc.
La funzione che le UA sono chiamate a svolgere è, quindi, sia didattica, sia formativa.
Didattica perché devono distribuire i contenuti disciplinari e/o interdisciplinari rispettandone l'epistemologia e la logica. Formativa perché scopo delle unità di apprendimento non è la semplice trasmissione di conoscenze e le abilità corrette, ma la formazione integrale della persona; in altri termini, funzione delle UA è quella di maturare le capacità di ciascuno, trasformandole in competenze, mediante la trasmissione di conoscenze e abilità.
La combinazione delle due esigenze porta a ritenere, quindi, che ciò che delimita e identifica un'unità di apprendimento non possa essere il riferimento estrinseco ad un argomento disciplinare o multi-pluri-interdisciplinare pur rigorosamente svolto in sequenze, ma sia piuttosto la scelta di un compito di apprendimento che sia unitario, ancorché internamente articolato e organico, ancorché adatto e significativo per gli allievi, da esprimere mediante la formulazione di uno o più obiettivi formativi integrati.
Il fatto che le UA siano centrate sull'apprendimento e concepite essenzialmente come occasioni di crescita e maturazione della persona, comporta, perciò, uno spostamento dell'attenzione dalle esigenze dell'insegnamento di contenuti a quelle dell'apprendimento di tali contenuti; dalla programmazione a priori del lavoro docente all'evolversi concreto ed in situazione delle dinamiche di apprendimento e formative della classe e dei singoli.
Quando si parla di apprendimento nel caso delle UA, occorre distinguere due significati: è tramite l'esperienza di apprendimento che l'alunno acquisisce conoscenze e abilità, ed è sempre tramite questa esperienza che trasforma le capacità in competenze; dove è evidente che la prima è funzionale alla seconda.
Il livello di apprendimento che si ha di mira nell'UA non è solo il primo o il secondo, ma quello che si confronta con l'intero dei due, l'unico che può tradurre in competenze personali.
La centratura sull'apprendimento, che è esperienza personale, pone il problema di far convivere le esigenze dell'unità didattico - organizzativa dell'UA, con la molteplicità dei percorsi personalizzati. Ciò che rende possibile la mediazione è il fatto che le UA propongono un intero di apprendimento articolabile al suo interno: l'intero è prospettato come compito identico per tutti; ciò che può e deve essere personalizzato è l'acquisizione di conoscenze, abilità, comportamenti e atteggiamenti, che devono essere utili alla concretizzazione del compito ma anche adatti e significativi per la persona, tramite la declinazione in itinere e in situazione di obiettivi formativi personalizzati.

Come si progettano, si sviluppano e si controllano. Come si mostra, peraltro con un alto grado di analiticità, nella tabella intitolata Guida per la progettazione, la realizzazione e il controllo di un'Unità di Apprendimento (UA), che si riporta di seguito, le UA sono caratterizzate da un processo articolabile in tre fasi fondamentali: 1) preattiva o ideativo-progettuale; 2) attiva o della mediazione didattica; 3) postattiva o dell'accertamento e della documentazione degli esiti.
1) Il punto di avvio di un'UA è costituito da momento di ideazione, necessario per focalizzare l'intenzione formativa e didattica, da esplicitare mediante l'indicazione di un apprendimento unitario da promuovere (o obiettivo formativo unitario/integrato). Progettare un'UA significa, in primo luogo, conoscendo gli allievi e l'ambiente, individuare un compito di apprendimento unitario, ma articolabile al suo interno, su cui la didattica dovrà esercitare le proprie funzioni di mediazione. Questa priorità reale del momento ideativo non configura però una sorta di primato ideale per la fase di progettazione. Anzi, se una priorità deve essere assegnata, questa spetta all'agire didattico in situazione: per le UA ciò che conta è soprattutto la capacità di comprensione e adattamento alle situazioni reali che di volta in volta si determinano.
2) Fissato l'apprendimento unitario e pochi altri elementi essenziali, la parola passa alla fase di sviluppo o di mediazione didattica. La sua funzione è quella di aiutare gli alunni, mediante gli opportuni mediatori didattici di metodo, contenuto, tempo, luogo, ecc. a concretizzare l'intero di apprendimento, ciascuno a proprio modo, lavorando di fatto sulle conoscenze e le abilità necessarie.
Durante questa fase, tra l'UA progettata e quella attuata si realizza piuttosto un rapporto di interazione circolare: la programmazione a bassa risoluzione orienta l'azione didattica, recepisce i ritorni di questa stessa azione, secondo una logica di interdipendenza e si arricchisce e precisa strada facendo.
3) Il punto di arrivo è costituito dal momento di accertamento e documentazione degli esiti del processo di apprendimento. Nel caso delle UA, non è previsto soltanto l'accertamento del livello delle conoscenze e delle abilità acquisite, ma anche quello relativo al compito unitario di apprendimento, e cioè se e quanto le conoscenze e abilità abbiano maturato le competenze. Si dovrà naturalmente trovare il modo per evitare ogni eccesso in fase di verifica e valutazione, unificando i due aspetti o privilegiando, a secondo dei casi, l'uno o l'altro aspetto. All'accertamento fa seguito la documentazione da selezionare per il Portfolio e da collocare poi nel PSP.
L'UA nel suo svolgersi dovrà, naturalmente, essere supportata dalla predisposizione di opportune procedure e strumenti di lavoro, che sarà cura di ogni scuola individuare ed elaborare, tenuto conto delle caratteristiche sopra evidenziate.

B) I Piani di Studio Personalizzati come insieme di UA
Che cosa sono
. Il concetto di Piano di Sudio Personalizzato è legato ad una visione pedagogica che, a partire dalla centralità della persona e dall'unicità dei suoi bisogni formativi, considera la diversificazione dei percorsi come condizione imprescindibile per la piena attuazione del diritto allo studio, per la rimozione dei condizionamenti e per il successo formativo. A questa visione si contrappone l'idea di programma o piano di studio disciplinare identico per tutti, centrato sull'articolazione delle discipline di studio e dei loro contenuti, da trasformare in patrimonio comune di conoscenze e abilità astrattamente intese. Nel primo caso, prevale il valore del soggetto che apprende in modo personale gli oggetti culturali; nel secondo prevale l'attenzione sugli oggetti culturali.
Se la finalità del PSP è quella di favorire il processo formativo e la crescita della persona, cercando di aderire quanto più possibile alla sua situazione, ai suoi bisogni, motivazioni interessi, progetto di vita, ecc., senza comunque perdere di vista il riferimento un'idea o profilo di persona socialmente condiviso (Profilo educativo, culturale e professionale), la finalità dei piani di studio disciplinari è l'esplorazione sistematica delle discipline e dei loro contenuti, considerati come valore primario; a questa esigenze deve essere piegato il processo formativo individuale.
Considerato che il concetto di PSP comporta una tendenziale diversificazione dei percorsi, anche individuali, sembra evidente che una scuola che si ispira a questi principi debba coerentemente valorizzare tutti quei i principi e strumenti di flessibilità organizzativa e didattica, resi disponibili e praticabili dal Regolamento sull'autonomia (275/99) e ribaditi dalle Indicazioni nazionali. Tocca ad ogni singola scuola porre in essere tutte le condizioni organizzative e didattiche per rendere possibile l'attuazione di queste indicazione. In particolare sembra opportuno adottare ogni forma di flessibilità oraria, del gruppo classe e di didattica di laboratorio, che si configurano come strumenti indispensabili per la differenziazione dei percorsi.
All'interno di questa logica centrata sulla persona, appare evidente che il soggetto ultimo e vero dei PSP è il singolo alunno, visto al tempo stesso come destinatario e protagonista del proprio percorso didattico-educativo. Per ogni singolo alunno il Piano di Studi Personalizzato altro non è se non la sequenza progressiva e sensata delle esperienze di apprendimento, rese possibili e propiziate da un insieme coerente e organico di Unità di apprendimento, elaborato e predisposto dal gruppo docente. Anche se, di norma, le UA non hanno come destinatario il singolo, ma il gruppo classe, di interclasse, di livello, di compito, elettivo, ecc., all'interno di un'insieme di UA deve essere possibile, in linea di principio, e quando serve, rintracciare e ricostruire il percorso effettivo di ogni singolo alunno (cioè il suo PSP).

Come si costruiscono. Le Indicazioni nazionali instaurano uno stretto legame tra le Unità di Apprendimento ed i PSP. È, infatti, "l'insieme delle Unità di Apprendimento effettivamente realizzate, con le eventuali differenziazioni che si fossero rese opportune per singoli alunni", che "dà origine al Piano di Studio Personalizzato", il quale "resta a disposizione delle famiglie e da cui si ricava anche la documentazione utile per la compilazione del Portfolio delle competenze personali".
Affermare che l'insieme delle UA dà origine al PSP implica che tra i due momenti non esiste un'identità meccanica, ma piuttosto una derivazione dinamica reciproca, a testimonianza dell'aspetto sempre coevolutivo di qualsiasi attività educativa e didattica.
Per un verso, infatti, le Indicazioni nazionali alludono ad una dimensione progettuale propria e specifica dei PSP (sia pure intesi come sequenza logica e progressiva di UA). Si parla di PSP elaborati da gruppi di docenti, o se si preferisce di sequenze diacroniche e incastri sincronici di UA.
Si afferma anche che questo momento progettuale specifico dovrebbe coinvolgere le famiglie, gli alunni ed il territorio ("il Piano di Studio Personalizzato è un appuntamento cruciale anche perché, a scelta delle famiglie e dei preadolescenti, con l'assistenza del tutor, la scuola può dedicare una quota... di ore annuali all'approfondimento parziale o totale di discipline e attività"). È come se, in questi passi, le Indicazioni nazionali mettessero l'accento sulla parola Piano più che su Personalizzati, il che richiama il dispiegare, il tracciare a grandi linee, il porre anche le condizioni della personalizzazione. Si vuole, insomma, che i PSP non siano una collezione del tutto casuale, arbitraria e accidentale di UA (o esperienze formative e di apprendimento), senza un filo logico e delle linee di tendenza; si vuole che all'interno di ogni singolo PSP si possano leggere in controluce "l'ispirazione culturale-pedagogica, i collegamenti con gli enti territoriali e l'unità anche didattico-organizzativa dei Piani di studio personalizzati". Dato che questi elementi sono esplicitati nel POF, i PSP devono, quindi, essere coerenti con le scelte del POF. Ciò significa che i Piani vanno in qualche modo ipotizzati prima (una traccia possibile, un percorso sensato, con possibili alternative) dell'elaborazione delle UA.
Per l'altro verso, però, le Indicazioni nazionali sono altrettanto chiare nel dire che il PSP è l'insieme delle UA non tanto come sono state progettate nella fase preattiva, sulla base della traccia generale di PSP coerenti al Pof, bensì come sono poi state "effettivamente realizzate" nella fase attiva, ovvero con le eventuali variazioni intervenute per adattare l'azione didattica all'evolversi dell'esperienza di apprendimento.
Dato per acquisito che il concetto di PSP può assumere sfumature di senso diverse a secondo del livello o della prospettiva da cui lo si considera, si può sostenere, comunque, che sua pratica sia meno complicata della sua teoria.
Infatti, si può individuare il suo punto di partenza in una pianificazione compositiva: una pianificazione flessibile e leggera (traccia di pianificazione) che deve ipotizzare, mediante una visione preventiva e di insieme, l'elenco degli apprendimenti unitari da promuovere, il numero di UA programmabili in un periodo dato, il titolo di queste UA, ecc.; oltre che degli aspetti strettamente didattici (delineare una traccia di percorso di apprendimento che assicura che siano presi in considerazione diversi elementi del PECUP e gli OSA previsti per una certa annualità o biennio), questa pianificazione dovrebbe riguardare anche gli aspetti temporali (rapporti di successione e contemporaneità tra UA) e gli aspetti organizzativi (gestione dei laboratori, incontri di équipe, verifiche ecc.). Questa pianificazione dovrebbe esser verificata e aggiornata ogni bimestre e/o quadrimestre.
In itinere, poi, le UA di volta in volta effettivamente realizzate dovrebbero essere raccolte e conservate e catalogate secondo criteri logici e temporali, di facile accesso e consultabilità, ed è necessario che qualcuno lo faccia. Tuttavia è chiaro che un documento così voluminoso come l'insieme delle UA, per quanto a disposizione di docenti e famiglie, non renda agevole la ricostruzione del percorso personalizzato di ogni alunno. E' necessario perciò pensare ad uno stralcio, mediante una scheda aggiornata costantemente su quali siano le UA seguite da un alunno, che conservi la traccia del suo percorso.
È possibile che questo stralcio debba considerare: se le UA sono individuali di gruppo elettive, di livello, di compito, ecc.; se siano state fatte dalla scuola o da enti territoriali, se siano di approfondimento o di disciplina, ecc. C'è bisogno di un aggiornamento costante della scheda che deve essere fatta dal docente tutor. Data l'estensione temporale di medio periodo dei PSP si può pensare che la traccia debba valere per un'annualità o un biennio almeno.

Il Portfolio delle competenze personali
L'art. 8, Dpr 275/99, comma 1, punto g) obbliga il Ministero a tracciare "gli indirizzi generali circa la valutazione degli alunni e il riconoscimento dei crediti e dei debiti formativi". Questo dettato normativo va letto insieme al comma 3 dell'art. 10 dello stesso Dpr, comma che recita: "con decreto del Ministero della P.I. sono adottati i nuovi modelli per le certificazioni, le quali indicano le conoscenze, le competenze, le capacità acquisite e i crediti formativi riconoscibili, compresi quelli relativi alle discipline e alle attività realizzate nell'ambito dell'ampliamento dell'offerta formativa o liberamente scelte dagli alunni".
In questo contesto, le Indicazioni Nazionali precisano significato, usi e sezioni del Portfolio delle competenze personali degli allievi.
Si comincia col dire che il Portfolio è compilato, in nome e per conto dell'équipe pedagogica, dal docente coordinatore di classe-tutor che ha in carico i ragazzi di un gruppo classe dall'inizio alla fine di ogni grado di scuola, coinvolgendo i genitori e, in nome della trasparenza sia giuridica sia educativa, anche gli allievi.
Previsto per l'intera durata dei 12 anni del diritto-dovere all'istruzione e formazione di tutti i cittadini italiani, ma introdotto anche per la scuola dell'infanzia, il Portfolio comprende una sezione dedicata alla valutazione e un'altra sezione riservata all'orientamento.
La prima redatta sulla base delle indicazioni fornite dal Ministero a proposito "degli indirizzi generali circa la valutazione degli alunni e il riconoscimento dei crediti e dei debiti formativi" (art. 8, Dpr 275/99, comma 1, punto g). La seconda costruita dalle scuole e dai responsabili del processo educativo seguito dagli allievi, e stratificatasi nel corso del tempo.
La prima, con lo scopo di stimolare l'allievo a riflettere sul proprio lavoro, sugli esiti e sui processi e, soprattutto, di maturare la competenza di autovalutarli, anche confrontandosi con le valutazioni ottenute dai docenti. La seconda volta a rendere manifesto a sé e ad eventuali soggetti esterni il percorso della propria crescita, i suoi punti di forza, ma anche di debolezza, così da poter costruire un proprio, realistico progetto di vita.
La prima dove si certificano le competenze personali acquisite, specificando anche il livello delle conoscenze e delle abilità che esse hanno incorporato, sulla base degli standard stabiliti in sede di formulazione degli obiettivi formativi delle UA. La seconda dove si identificano, invece, le capacità del ragazzo e quindi le sue migliori potenzialità nel complesso delle attività formative.
Le due dimensioni si intrecciano in continuazione in tutti gli ordini e gradi scuola, perché l'unica valutazione positiva per lo studente di qualsiasi età è quella che contribuisce a conoscere l'ampiezza e la profondità delle sue competenze e, attraverso questa conoscenza progressiva e sistematica, a far scoprire ed apprezzare sempre meglio le capacità potenziali personali, non pienamente mobilitate, ma forse indispensabili per avvalorare e decidere più congrue scelte umane, scolastiche e professionali.
L'osservazione occasionale e sistematica degli allievi, finalizzata alla comprensione e all'interpretazione dei comportamenti per contestualizzarli e analizzarli nei loro significati, unita alla documentazione esemplare della loro attività, permetterà di coglierne e valutarne le esigenze, di riequilibrare via via le proposte educative in base alla qualità e alla quantità delle loro risposte e di condividerle con loro e con le loro famiglie.
I materiali necessari alla compilazione delle due sezioni del Portfolio sono ricavati dai PSP.
La raccolta dei materiali non è un evento, ma un processo dinamico che si compie attraverso tutto l'anno scolastico e che deve essere mantenuto viva e motivante. Non è un percorso parallelo ai momenti formativi e didattici, ma ne è una specie di loro diario critico ed autoriflessivo, gestito insieme dallo studente e dalla sua famiglia con l'équipe pedagogica, tramite il docente coordinatore tutor. Il Portfolio, quindi, non solo documenta ciò che il ragazzo produce, ma anche perché e come, e perché a un certo punto si ferma, perché e in che senso è scoraggiato, perché studia una disciplina piuttosto che un'altra.
Nelle due sezioni possono ad esempio confluire, con annotazioni dei docenti, dei genitori e degli allievi stessi (è importante questo coinvolgimento diretto):
- prove scolastiche significative, individuali o di gruppo, contestualizzate alle circostanze, capaci di documentare le più spiccate competenze dell'allievo;
- osservazioni sui metodi di apprendimento dello studente, con la rilevazione delle loro caratteristiche originali nelle diverse esperienze formative affrontate;
- commenti su lavori ed elaborati personali, ritenuti esemplificativi delle capacità e delle aspirazioni dell'allievo;
- indicazioni che emergono dall'osservazione sistematica, dai colloqui insegnanti-genitori, da colloqui con lo studente in ordine alle personali attitudini e agli interessi più manifesti;
- elaborazione di un progetto personale di vita relativo alla futura collocazione dello studente nella società, nella scuola e in una o più attività professionali.
Le Indicazioni Nazionali/Regionali ricordano che il Portfolio non è, né deve essere, un contenitore di materiali disordinati e non organizzati. Una specie di faldone, riempito generosamente, ma anche confusamente, di carta, senza o con poco di scarso rilievo paradigmatico e comparativo.
È, piuttosto, preciso dovere di ogni istituzione scolastica individuare i criteri di scelta di quanto inserire nel Portfolio e di farlo all'interno di un percorso professionale che valorizza le pratiche dell'autonomia di ricerca e di sviluppo che compete ai docenti e il principio della cooperazione educativa della famiglia sulla base del principio di sussidiarietà.
In questa prospettiva, il Portfolio può avere una versione maior e una minor. La maior viene data all'allievo e alla famiglia anno per anno. Una specie di biografia documentata di sé. Utilissima quando, da adolescenti o da adulti, si vorrà andare non solo a rivedersi, ma a considerare come lo hanno a volta a volta visto gli altri, e in particolare le persone significative che ha incontrato. In un mondo senza memoria, dove tutto è appiattito sul presente televisivo, abituare le persone a confrontarsi con la complessità della propria storia formativa può essere importante anche ai fini dell'equilibrio umano individuale. La versione minor, frutto di una selezione responsabile e rigorosa della precedente, resta agli atti della scuola e impedisce, nel passare da un grado all'altro di scuola, di rendere il Portfolio intrasportabile per ampiezza, visto che è obbligatorio curarlo per ben 12 anni.
Il Portfolio assume un particolare significato negli anni di transizione da un grado all'altro di scuola e nell'anno di passaggio verso l'università, i conservatori e le accademie, la formazione professionale superiore e il mondo del lavoro. Si tratta di creare le condizioni per richiamare la scuola, soprattutto attraverso il tutor, la famiglia e gli allievi ad affrontare questi momenti con la massima responsabilità educativa, facendo un bilancio orientativo delle competenze maturate e mettendo in chiaro l'algebra dei debiti e dei crediti formativi accumulati nel tempo.
Le Indicazioni Nazionali invitano, in ogni caso, il docente tutor, a nome del team docente, indipendentemente dalle decisioni della famiglia e dell'allievo, ad esprimere un proprio consiglio di orientamento sia a livello di transizione dalla scuola dell'infanzia alla scuola primaria sia a livello di transizione dal primo al secondo ciclo e poi dal secondo ciclo all'università o alla formazione superiore.
La circostanza non solo è indicata dalle Indicazioni Nazionali come segno di assunzione di responsabilità professionale da parte della scuola e dei docenti alla fine di un percorso formativo che nel caso della scuola primaria e della scuola secondaria di II grado dura ben cinque anni, ma è un elemento che, proprio perché non vincolante per la famiglia e per l'allievo, porta la scuola ad interrogarsi sui percorsi formativi del giovane e a seguirli, nei limiti del possibile, negli anni successivi, per verificare se e fino a che punto, e perché, il consiglio orientativo espresso a suo tempo sia stato più o meno pertinente. Ogni scuola potrà così raccogliere elementi per perfezionare il proprio complessivo know how orientativo ed affinare, in base alla riflessione critica sull'esperienza compiuta, le proprie competenze professionali di intuizione e di giudizio valutativo.
La riflessione critica sul Portfolio costituisce, del resto, rammentano le Indicazioni Nazionali, una notevole occasione per migliorare le pratiche di insegnamento; occasione, quindi, per esperienze di microteaching, di R/A, di analisi del caso, di comparazione delle best pratices accumulate dai colleghi ecc.

 
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